domenica 17 giugno 2007

Magma

Il demone del piacere era lì, proprio di fronte a lui, ed aveva assunto le sembianze di un nastro di celluloide racchiuso dentro un piatto parallelepipedo di plastica nera.
Armando l’aveva scoperto per caso aprendo il cassetto della scrivania del collega in cerca delle graffette ferma fogli; ma invece della famigliare scatola verde, i suoi occhi si erano posati sulla videocassetta e subito il suo cuore aveva cominciato a pompare sangue più velocemente.
Conosceva già di fama il nastro, i suoi colleghi se lo passavano di mano commentandone i contenuti, lodando le prestazioni di qualche artista con espressioni un po' ammirate, un po' invidiose. D’altra parte la custodia protettiva lasciava poco spazio ai dubbi: sotto alla scritta "Magma", wild pigs and other ajaculations" vi era un primo piano di quella che poteva essere una delle protagoniste del film; un apparato mammario di dimensioni inusuali era sormontato da un viso di donna i cui lineamenti erano deformati da un orgasmo apparentemente insostenibile.
Sentii lo stomaco contrarsi mentre era palesemente ipnotizzato dalla fotografia. La ferrea, anche se non rigida, educazione cattolica ricevuta, di tanto in tanto affiorava insieme alle indispensabili repressioni.
Cosi Armando non perdeva occasione per sbirciare fugacemente le copertine dei giornali porno, così come le prostitute lungo la strada, ritrovando piacere per la trasgressione che provava da adolescente; un piacere più forte di quello erotico, un piacere che faceva parte di lui.
Guardò al retro della custodia, cove altre fotografie offrivano un antipasto al succulento contenuto del film e iniziò a sudare quando notò come un certo particolare anatomico di una attrice fosse simile a quello di una segreteria del suo ufficio.
Era Venerdì pomeriggio, il week-end alle porte e il legittimo proprietario del nastro che tornava dalle ferie solo il lunedì successivo. Perchè lasciarsi sfuggire l’occasione?
Se ne uscì dall’ufficio con la ventiquattrore appesantita dal suo carico porno, ed allora si rese conto di una assoluta verità: non possedeva un videoregistratore. In effetti ciò poteva rappresentare un problema, specie se si vuol vedere una videocassetta; ma non per l’eroico Armando. La visione del piacere valeva il superamento di qualche difficoltà logistica.
Intanto, la prima dove nascondere la maialata in celluloide?
Mentre portava il suo fido 124 beige verso casa, Armando rifletteva ad alta voce e con metodo:
- "La tengo nella borsa. chi va a vedere nella borsa?... la nonna, quando cerca il giornale. Niente borsa o alla nonna viene un mezzo infarto. In camera; ecco in camera. Cosa potrebbe succedere? potrebbe succedere che mia madre pulisce e lo trova. Già, sarebbe un po' sconvolta. No niente camera. In cantina!" - l’idea lo entusiasmò - "sì, in cantina... ah no! boia!" - imprecò - "è vero che mio padre imbottiglia."
Tremò al solo pensiero dello sguardo accusatorio del padre.
Poi l’illuminazione sulla via di Damasco: - "In macchina!" - urlò dall’eccitazione facendo sbandare un pensionato in bicicletta. Immediatamente scalò la marcia, tagliò la strada ad una serie di pedoni e vetture assortite e si infilò in una laterale poco frequentata. Dopo un paio di centinaia di metri si fermò vicino ad una ampia cancellata; si guardò intorno: nessuno in vista, poteva procedere all’operazione "imbosco di pornazzo".
Scese ed iniziò a scuotere nervosamente la portiera posteriore. Naturalmente era chiusa. Riuscì infine a prendere la valigia e a porla sul baule posteriore. Cercò freneticamente la chiave giusta. Solo dopo averla trovatasi rese conto che aprire un baule quando su questo c’è appoggiata una valigia poteva essere una cosa comunemente chiamata cazzata. Prese in mano la valigia e finalmente aprì’ dietro. Si immerse nel baule con quasi tutto il corpo ed emerse tenendo in mano una vecchia borsa di tela blu sul cui fianco delle lettere che una volta erano bianche informavano dell’esistenza di una certa bocciofila Rizziera. Era la mitica borsa degli attrezzi. Ora si trattava di aprire la valigia, estrarre il pornazzo e metterlo fra chiavi inglesi e candele: Un’operazione semplice, ma che si può complicare non poco se si è al nervosismo più assoluto. La ventiquattrore si apriva sollevandone il coperchio, quindi, per compiere questa ardua operazione, Armando aveva bisogno di una base d’appoggio. Si guardò intorno: niente che potesse assolvere questa funzione. Alzò la gamba sinistra tenendosi in equilibrio sulla destra, appoggiò la valigia alla coscia, e tentò di far scattare le serrature. Il baricentro iniziò a spostarsi inesorabile e bastardo lui cercò di recuperarlo saltellando sulla gamba. Dopo alcuni patetici balzi, il suo volenteroso tentativo fu interrotto bruscamente dal corpo massiccio di uno dei tanti operai che uscivano dalla fabbrica. In quel momento. La valigia schizzò dalle mani di Armando come fosse di sapone e scelse quel preciso istante per aprirsi spargendo intorno tutto il contenuto.
Freneticamente Armando cercò la sua cassetta e fu aiutato in ciò da un tarchiato metalmeccanico che indicando il nastro per terra commentò con voce esageratamente alta:
- "Soccia, questo sì che è un cinema che mi piace!" Armando si assoggettò tentando una parodia di sorriso, ma non gradì nè l’entusiasta recensione, nè tantomeno la strizzatina d’occhio, che gli rivolse l’operaio, anzi si può dire che l’odiò per questo complice gesto.
Quella sera Armando pareva contemporaneamente in tutte le stanze dell’appartamento, tanta agitazione aveva in corpo, e se non c’era lui si sentiva comunque la presenza della sua voce tonante. Tanta vitalità era giustificata dalla risoluzione del problema videoregistratore. Tramite telefono era infatti riuscito a trovare un amico disponibile a dividere con lui una oretta di piacere filmato; grandioso! Alle 21 in punto l’orgasmo catodico si sarebbe realizzato.
Il dramma durante la cena; Armando era alla terza porzione di brasato quando il padre interruppe la sua solita taciturna abitudine per dire:
- "Stasera prendo la 124".
Sentendo questa sentenza paterna Armando rischiò il soffocamento.
- "Ma veramente..." - riuscì a dire una volta riacquistato l’uso dell’esofago - "mi servirebbe per andare da Carlo; sai, parte per le ferie..."
- "Ma Titto," - s’intromise la madre usando l’odioso nomignolo di quando aveva cinque anni - "Te l’ho detto prima che stasera andavamo dalla zia Carlotta a prendere la conserva di pomodoro."
Nella mente di Armando si formò uno scenario in cui le cassette di pomodoro venivano posate sul nastro rendendolo una inutile poltiglia di plastica. Quanto sarebbe costato il ripagarlo al proprietario? Con ottimismo invidiabile, elaborò una ulteriore agghiacciante ipotesi: guasto all’auto, padre che prende la borsa degli attrezzi, e invece della chiave del 28 si trova fra le mani il laido filmato, e poi lo sguardo paterno deluso e risentito, la sua immagine di bravo figliolo annullata da quella di maniaco perverso.
- "Vi accompagno io!" - urlò facendo sobbalzare la nonna, decidendo d’impulso che era meglio tenere la situazione sotto controllo, piuttosto che attendere in casa il ritorno dei genitori non sapendo se sarebbero rientrati solo con la conserva al pomodoro o anche con la vergogna di un figlio anormale.
Uscì fuori comunque una bella seratina: la conserva non uccise il filmato che rimase quieto nella mitica borsa degli attrezzi , la zia Carlotta fece una gran festa al nipote così come Andrea, il cugino scemo, che riuscì anche, contro ogni pronostico, a battere il nervoso Armando a rubamazzo per ben due volte.
Il mattino dopo, appena sveglio, Armando prese coscienza della sua drammatica situazione: Una videocassetta clandestina, un solo amico attualmente in ferie disponibile per la visione della cassetta in questione, nessun altro mezzo alternativo, una voglia morbosa di assistere al pornospettacolo.
Praticamente una situazione senza via di scampo.
Nel pomeriggio uscì con la Barbara, la sua ragazza, e considerò di vederlo insieme a lei. Effettivamente la ragazza possedeva parecchie cose: tre televisori, due videoregistratori, uno stereo, un fratello idiota, un padre, una madre (la procace Sig.ra Tina) e tre auto; ma l’ipotesi di assistere alla pornoproiezione insieme a lei era impraticabile. La Barbara già si concedeva ad Armando con il trasporto e la frequenza di una beghina ottuagenaria, ed inoltre disprezzava la pornografia ed i suoi utenti con eccessiva virulenza.
Ma vi era un’altra persona nella vita di Armando che gli poteva essere di aiuto: sua cugina. La Katia aveva solo cinque anni più di lui ed era già felicemente sposata con prole; Armando l’aveva sempre vista come un prototipo di sorella maggiore e sicura di sè, piena di buoni consigli, una classica donna moderna, insomma.. E aveva un videoregistratore. Alla sera si preparò per andare a cena dalla cugina. Non aveva un piano ben preciso. Avrebbero cenato e lui avrebbe improvvisato sul tema, attendendo il momento buono per far vedere il nastro.
Nel frattempo dove mettere il pornazzo? Armando aveva una giacca scozzese color acquamarina con due tasche interne: una era di dimensioni standard, ma l’altra poteva assolvere la funzione di nascondiglio. La cosa parve funzionare, sennonché si era in Luglio inoltrato e l’afa era oppressiva anche di sera, così Amando decise che almeno in auto poteva evitare la sauna.
Si tolse la giacca con il porno dentro e la posò sul sedile di fianco. Vicinissimo alla casa della cugina si verificò l’inconveniente; tutto concentrato a ciò che poteva escogitare nelle prossime ore, Armando si accorse del semaforo rosso solo all’ultimo momento. Frenò, sfiorò un Apecar e gli si spense il motore. La giacca era finita sul pavimento de 124. Scendendo dall’auto si accorse che anche la videocassetta era uscita dal nascondiglio. La rimise velocemente al suo posto, suonò ed entrò in ascensore insieme ad una anziana signora dai capelli azzurrini. Durante l’ascesa della cabina Armando teneva l’atteggiamento di disinvolta serietà così tipico di chi si trova in ascensore con uno sconosciuto: mani in tasca, sguardo nel vuoto. La signora invece no; lo fissava intensamente, anzi lo guadava alternativamente in un punto vicino al petto e poi in volto. La signora aveva anche una espressione schifata. Imbarazzato Armando seguì lo sguardo della vegliarda e i suoi occhi si fermarono su una parte del viso dell’attrice che stava sulla copertina del film. Evidentemente in macchina aveva infilato il nastro nella tasca più piccola e adesso eccolo lì che sporgeva con il suo bel titolo e la faccia eccitata di una protagonista.
Appena la vecchia scese, Armando cercò di rimettere il pornazzo al suo posto. Il nastro si incastrò. La cabina continuava a salire verso il piano della cugina. Armando pigiò alcuni pulsanti dell’ascensore con l’intenzione improbabile di invertire il senso di marcia. Riuscì comunque a bloccare la cabina e a suonare l’allarme quasi contemporaneamente. La cassetta, continuava a non volerne sapere di uscire dalla tasca. Infine stracciò la fodera e mise il turpe filmato dove avrebbe dovuto stare. Rispose con spigliatezza al gruppo di condomini che lo liberò dall’incomoda posizione, con disinvoltura rimbeccò le battute di Katia e di suo marito ed entrò nell’appartamento.
Parole fra parenti. Frasi di circostanza. Poi la banalità si trasforma in crisi;
- "Dammi pure la giacca".
- "No, grazie, preferisco tenerla. Questa sera è un po' fresco".
- "Ma se ci sono 29 gradi".
- "E’ una escursione termica." - viso che diventa pian piano sempre più arrossato sotto lo sguardo indagatore della cugina.
- "Due settimane consecutive di temperatura vicino ai 30 gradi non mi sembrano esattamente una escursione termica". - ribadì Katia; poi con fare casuale, mentre si dirigeva verso la cucina: -"Comunque se il problema è lo strappo che hai dentro la giacca, non ti preoccupare; al limite potrei anche cucirtelo".
Durante questo dialogo Armando si rese conto che i pori della sua pelle stavano emettendo ettolitri di sudore, e la cosa peggiorò durante la cena vera e propria. Già dopo le prime forchettate del primo la giacca non era più un innocuo capo di abbigliamento, bensì un raffinato mezzo di tortura e di coercizione; d’altra parte il togliersela e lasciarla incustodita avrebbe potuto portare ad una prematura scoperta del nastro.
Sudore. Caldo. Parole intorno alla tavola. Il vino bevuto faceva calare le inibizioni. Armando sperava che calassero ulteriormente giusto da inserire nel discorso un "Mi piacerebbe provare il vostro videoregistratore. Ma da solo"; oppure "Adesso collaboro con un giornale di recensioni video e il primo su cui devo lavorare, ci credereste? pare un porno"; ma poteva andar bene anche "Sto facendo un concorso in cui mi mandano una cassetta, ed io vedendola devo trovare la soluzione a delle domande, mi dareste una mano?".
Niente da fare. La rivelazione del tesoro nella tasca non ci fu nè durante la cena nè dopo, quando Armando si trovò sul divano del salotto mentre il marito di Katia proiettava trecentocinquanta diapositive della Sardegna. Ma i suoi bulbi oculari passavano distrattamente sulle immagini dei paesaggi. Si soffermavano piuttosto, su quella scatola nera e piatta che occhieggiava sotto il televisore e che avrebbe potuto donargli 90 minuti di sovratensione psicofisica.
Al momento del commiato, Armando era uno straccio.
Guardò un’ultima volta il video riluttante a separarsene e poi uscì. Si fermò a nascondere nuovamente l’anelato orgasmo in VHS, vomitò tutta la pur ottima cena e guidò il 124 verso casa, rendendosi conto che non aveva mai puzzato tanto di sudore come quella sera.

Aveva deciso di dargliela su. Aveva chiuso con quel cazzo di nastro. Aveva provato a vederlo, nessuno poteva dire il contrario, ma era stata una missione impossibile.
Lunedì l’avrebbe restituito al proprietario: "Come ti è parso Armando?" - "Oh, avevi ragione, mai viste cose del genere? Che storie..!".
Rassegnato a segnare una ultima occasione persa nel bilancio della sua vita, Armando trascorse una Domenica con la sua ragazza. Una Domenica normale come tante ne aveva trascorse, come tante avrebbe trascorso. Passò la sera a casa della Barbara. Una cena, seduto di fianco al padre di Barbara, il geom. Carlo, un uomo convinto che Armando fosse a conoscenza delle più alte strategie manageriali e d’alta finanza, visto il tenore degli argomenti che usava quando rivolgeva la parola al futuro genero. Una impresa ardua, visto che la conversazione, l’attenzione, la discussione era sempre e comunque monopolizzata, fagocitata, dominata, indirizzata, industrializzata dalla madre di Barbara, la sig.ra Tina.
Quarantacinque gagliarde primavere che venivano attutite da quantità di cosmetici, ore di palestra, abluzioni in vasche di idromassaggio, fantasiose diete. Fedele al motto "non è l’età che conta, ma lo spirito" la futura suocera adottava abbigliamenti e comportamenti più vicini alla generazione della figlia che alla sua, raggiungendo il discutibile risultato di suscitare sentimenti molto vicini al sarcasmo.
La logorroica sig.ra Tina riuscì ad imporre ai presenti la visione di "A qualcuno piace caldo" e Armando si trovò sul divano di fianco a Barbara a vedere un film già visto una mezza dozzina di volte, mentre pensava se mai potesse esistere una legge con l’abuso di videoregistratori.
Finito il film e salutato i prossimi inevitabili parenti, mentre si dirigeva verso la porta d’ingresso, ebbe l’illuminazione. Il lampo di genio.
Armando fissò il mazzo di chiavi di riserva dell’appartamento appese ad una orribile falsa chiave in legno vicino alla porta d’ingresso. Contemporaneamente si rese conto che il fatto che il fratello di Barbara fosse in ferie non rappresentava solo la liberazione da un rapporto umano piuttosto sgradevole, ma anche una concreta possibilità.
Non valutò le conseguenze del suo gesto. Agì e basta. Mentre seguiva Barbara verso la porta, Armando vide la sua mano allungarsi verso il portachiavi raffigurante S. Antonio da Padova, staccare il pesante mazzo dal suo chiodo e infilarselo in tasca.
Una volta in macchina gironzolò a caso per le strade del quartiere in attesa che tutti dormissero nella casa che aveva appena lasciato.
Nella sua testa agirono tutte le forze razionali che conosceva, tutto gli consigliava di recedere dal suo proposito. Con obiettività diede ragione ai buoni consigli della coscienza, ma ciò nonostante, dopo tre quarti d’ora, era di fronte alla porta dell’appartamento con le chiavi in mano e il porno in tasca. Scivolò nella casa convinto che il rumore della serratura avrebbe svegliato anche gli abitanti di città limitrofe. Nulla.
La casa era nel più assoluto silenzio. Deciso Armando entrò nella camera del fratello di Barbara dove, fra poster di moto, computer e mazze da baseball, il nostro eroe sapeva di trovare un Sony da 19 pollici con annesso videoregistratore.
Infilò la cuffia e la collegò alla TV, infilò la cassetta, si sedette sul letto di fronte allo schermo e attese.
Finalmente. Quando qualcuno desidera qualcosa e questo qualcosa così perseguito, invocato, sperato, bramato finalmente si ottiene, il risultato pare spesso inferiore alle aspettative. Armando vide sulle schermo una bellissima barca bianca ancorata in un porto che a lui parve quello di Cesenatico. Poi la telecamera si spostò all’interno dove una coppia eseguiva un saggio di conoscenza carnale. Un tizio si unì ai due, e la cosa non piacque ad Armando perchè l’avvento del nuovo personaggio riempiva il tubo catodico dei suoi particolari intimi. Anche le scene successive erano abbastanza deludenti. Fra primi piani più consoni a trattati di ginecologia che ad un film erotico, clisteri, pelle nera, animali, orkwerk Folletto, banane, stivali neri, deiezioni, falli, orgasmi tanto finti quanto le sentite condoglianze rivolte ad una ricca vedova il giorno del funerale del ricco defunto, fellatio, culi, gemiti monocordi doppiati fuori tempo, Armando sentì le palpebre farsi sempre più pesanti, sempre di più. I gridolini di piacere lo cullavano in un erotico dormiveglia da cui si svegliò di colpo. Sul video una biondona sui quaranta si dava da fare contemporaneamente con sei tizi vestiti da ciclisti. Ma non fu tanto la trama del film a svegliare Armando, quanto il fatto che le urla di piacere degli attori risuonavano in tutta la stanza, rimbalzavano sulle pareti, correvano per le stanze della casa, uscivano in strada, svegliavano le genti, coprivano il rumore delle guerre, il sussurro delle onde degli oceani, le parole delle persone, svegliarono il mondo intero.
Il cavo della cuffia penzolava staccato dalla presa.
L’inferno. La morte civica nella testa di Armando alla convulsa ricerca del telecomando. Lo trova. Aumenta il contrasto. Toglie la luminosità. Infine azzera il volume.
In quel preciso momento si aprì la porta
La signora Tina entrò nella stanza. Guardò per un attimo lo schermo televisivo; il Sony le rimandò le immagini mute di una orgia. Gli attori sembravano recitare una porno pantomima resa ancor più grottesca dallo squilibrio contrasto/luminosità. Poi lo sguardo si posò sul letto. Lì c’era Armando. O meglio, sul letta c’era un viscido verme strisciante, come avrebbe risposto Armando in quel momento se qualcuno gli avesse chiesto chi era.
Vide la donna avvicinarsi avvolta nella corta camicia da notte. Armando si concentrò ancora di più nell’impossibile tentativo di dissolversi nel nulla o, come seconda scelta, di diventare invisibile. Aprì la bocca, ma l’aria si rifiutò di uscire. Tentò di balbettare qualcosa che avesse il barlume di una scusa, della giustificazione, della misericordia, ma gli uscì solo un debole quanto pietoso rantolo, che ricordava l’ultimo istante di vita di una anitra.
La signora Tina gli posò un lungo dito bianco sulle labbra: - "Ssh, pulcino mio..." - mormorò armeggiando con la patta dei pantaloni - "non vorrai mica svegliare Barbara".
Armando chiuse gli occhi cercando di dimenticare la tremenda somiglianza che c’era fra il profumo della signora e quello che usava la propria madre.
La mattina dopo Armando derogò alle sue abitudini entrando in ufficio sul filo del ritardo. Si avvicinò alla scrivania del collega e gli pose il porno. L’uomo spostò lo sguardo dalla finestra alla videocassetta e si illuminò uscendo per un attimo dal suo impallamento postferiale.
- "Ah, Magma! L’hai visto anche tu, come ti è parso?"
Armando guardava serio le pratiche sul suo tavolo. Poi senza guardare in faccia il suo collega mormorò:
- "Che storia!"

FUGHE

C'era poco da fare, era un "pacco" bello e buono. L'avevo capito da subito e, nonstante ciò, c'ero cascato come un pollo.
"Ben ti stà" mi rimproverai accendendo una sigaretta e lasciando che lo sguardo vagasse oltre i tetti dell'Ospedale Militare. Là, oltre quelle mura dell'ex convento, c'era Padova, una città distante meno di un'ora dalla mia. C'erano negozi, ragazzi, donne, gente che si divertiva ignara di me, bloccato dall'altra parte del muro. Meglio della Caserma Addestramento Reclute da cui provenivo e dove ero rimasto tre giorni a guardarmi intorno indeciso se piangere o ridere di ciò che l'istituzione militare mi mostrava. Ne ero uscito, anche se temporaneamente, ingobbito da un impermeabile grigio verde, con un assurdo capello da alpino in testa e, subito arrivato alla nuova destinazione, avevo fatto un giro tra i cespugli polverosi e asfittici della stazione. Un giro rapido per interrompere la sequenza di crampi alle gambe e di sudori freddi.
Una piccola sorsata di conforto prima di affrontare un deserto di noia fatto di visite mediche dominate dall'angoscia di un ritorno al corpo, di suore, di preghiere, di sonni turbati dalla carenza bio-chimica del corpo.
Qua e là delle rare oasi: affinità elettive che si incrociano, seguono profumi illegali, indugiano su birre e sigarette consumate nevroticamente, scambiano sguardi. Infine si ritrovano.
Era così che avevo conosciuto quel tizio di Bassano. Tarchiato con pochi capelli sul cranio da bardotto e i lineamenti del viso affilati dalla piazza, veniva da una famiglia benestante ed era già parecchio andato.
Non mi interessavano i suoi tormenti e sensi di colpa, men che meno le motivazioni che stavano alla base di una discesa così veloce lungo il vizio, abituato oramai a rapporti strettamente funzionali, il tipo rappresentava per me solo ed unicamente un utile tramite tra me e ciò a cui miravo. Il mio istinto ebbe ragione, infatti il ragazzo parlava tanto, troppo, e bastò una allusione, una soltanto, per portarlo entusiasticamente sull'argomento.
- Ci sarebbe Paco, lui sà dove trovarla.- spiegò
- Chi sarebbe questo Paco ?
- Quel tipo là. - rispose indicando un angolo del cortile - Quello sdraiato sul muretto a prendere il sole.
Alto, magro e con la capigliatura apparentemente risparmiata dallo scempio del barbiere militare, stava tranquillamente a prendere il sole, con i pantaloncini color Kaki e la Fruit bianca.
Il tizio di Bassano lo trattava con quella deferenza che solitamente si riserva ad un capetto o, vista la situazione, al "tipo" quel personaggio da piazza dotato di un potere tanto enorme quanto effimero.
Il Paco in questione, d'altronde, si muoveva ben conscio della sua parte: gesti sciolti, calmi derivati da quella sicurezza che solo fonti qualificate ti possono dare e che naufragano di fronte ad un rifornimento bruciato o ad una retata dei carabinieri.
- Nessun problema.- continuava a ripetere una volta che aviammo le trattative - Si può fare. Alle 7 di sera, quando distribuiscono il rancio, ci troviamo nel cortile dietro, poi si fà spesa.
- Non ce l'hai tu ?.- chiesi diffidente.
- Lui esce e sà dove trovarla.- mi spiegò, non richiesto, lo scoppiato Bassanese.
Alle 19 in punto mentre tutti i pazienti del reparto Osservazione ringraziavano Dio per le schifezze che uscivano dalle pentole e dai tegami, ce la filammo elegantemente andando all'appuntamento.
Oltre a noi c'erano due vicentini, le faccie stravolte dall'astinenza e quarantamila lire da aggiungersi al mucchio delle mie trenta.
- Bene ragazzi, aspettate che io vado.- esordì Paco una volta che ebbe contato i soldi.
- Un attimo - interruppi - Io i soldi in mano non li do nemmeno a mia madre.
- Ok, allora o ti riprendi la tua fresca oppure vieni con me.- rispose senza guardarmi.
E subito si diresse deciso verso il muro di cinta.
Facendo leva su un paletto si arrampicò in cima, poi agrappandosi alla rete metallica si equilibrò verso un varco.
- Vieni ? - chiese guardando da oltre tre metri di altezza il mio naso all'aria.
Avevano già acceso le luci e un riflettore lo crocefiggeva contro quella recinzione, gli altri componenti del gruppo erano spariti e quel buco lassù nella rete era minaccioso. Di là da quel varco c'era uno sbattimento da farsi con tutti i crismi, gente che affollava banconi di bar per un aperitivo,ragazzi padovani che prendevano accordi per la serata, impiegati che rincasavono stanchi di straordinario. Ma c'era anche una altezza considerevole, e la possibilità di essere scoperto e rispedito al corpo insieme allo scomodissimo marchio di insofferente alla disciplina militare.
Sorrisi dunque a quel tipo lassù in alto.
- Non fare tardi che poi stò in pensiero.
Ricambiò il sorriso e riprese le sue acrobazie infilando le lunghe gambe nel varco, ondeggiando pericolosamente verso il lastricato alle sue spalle e sparendo infine al di là del confine con il mondo.
Questo alle 19.15 ora locale.
Adesso l'orologio segnava le 23. e ancora non si era visto.
Quindi mi aveva fregato. Matematico.
Un "pacco" di quelli classici, da non raccontarsi in giro per non diventare un cane di paglia in servizio permanente.
Accendo un'altra sigaretta pensando al solito rito che mi sarebbe toccato l'indomani: cercare Paco tra una visita e l'altra, forse trovarlo, minacciarlo, ascoltare le sue scuse e non credere a una parola.
Con gli altri tizi, magari lo si poteva portare in un angolo, rompergli il naso e vedere uscire quel sangue che aveva già metabolizzato i miei soldi. Picchiarlo per frustrazione, per non creare la fama di uno che si può fregare impunemente.
Prendere a pugni la propria degradazione riflessa nell'altro.
Sostanzialmente un atto di sopravvivenza gratuita.
Il tizio di Bassano si avvicinò. Con il sottofondo del chiostro e quella sua felpa dal capuccio tirato sulla testa sembra proprio un fraticello.
- Non si vede ancora.- annuncia
- Già.
La sua presenza mi infastidisce, la sua ovvietà pure, così come il suo coinvolgimento in una storia da cui ne esce solo della beneficenza .
- Stò malissimo.- continua a ripetere - Se non torna Paco... Cristo devo chiedere all'ufficiale medico un paio di Roipnol...
- Non te ne darà più - dico con cattiveria.- Ci sei andato già tre volte.
Non riesco a fargli male, lui è più esperto di me circa l'ambiente, e infatti replica con sicurezza
- Oh si che mi li darà! Lui vuole solo dormire in pace e ha paura che pianti un casino.
Voglio rimanere da solo. In queste situazioni l'unica arma che può avere un minimo di efficacia è quella di aspettare.
Una cosa che si impara subito: far passare il tempo per interminabili minuti a bordo di una macchina, su una panchina, sotto un portico, fumando una sigaretta dietro l'altra mentre mille faccie si incrociano senza essere quella giustaposservando tutte le faccie che passano sperando di vedere quella giusta.
- Io vado giù - sentenzia il ragazzo muovendosi.
- Sì vai, vai.
- No perchè stò troppo male. Sai com'è no ?
Ieri non stava TANTO male. Se questa sera il suo dolore è forte come una pena d'amore la colpa è della speranza, dell'illusione.
Accendo una sigaretta e riprendo l'attesa. Non di Paco, oramai lui non l'aspetto più, ma del mattino. Arriverà portandosi via questo nervosismo, questo sudore freddo che scende lungo la colonna vertebrale, queste lancette dell'orologio che si muovono troppo lente e troppo veloci.
Un altro mozzicone di sigaretta scende a far compagnia all'altro, oramai spento.
Mi muovo verso il mio reparto e la branda sperando solo in qualche ora di sonno.
A un risveglio in un mondo meno bastardo non spero più.

2

- Sveglia. Dai coso... Bologna svegliati!
Ho dormito solo due minuti, due ore, due secondi. Un sonno malsano, turbato dalle retroguardie della carenza, dai passi degli insonni, dai lamenti notturni provenienti dalle brande vicine e,ora, da qualcuno che mi scrolla.
- Dai cazzo! - continua a dire una voce soffocata. I miei occhi scorrono su di lui senza vederlo, si fermano sulla mia roba ammonticchiata dietro la branda. Istintivamente la palpo.
Sembra tutto a posto, nessuna mano estranea pare esserci messa in mezzo come quella sera, la prima, in cui mi trafugarono le stellette dalla divisa..
L'ombra tiene la voce bassa per non farsi sentire.
- Vieni dai, alzati.
Mi sembra che sia Paco, ma forse è ancora colpa dell'illusione.
Comunque sia quell'illusione la seguo nei cessi.
- Cazzo, certo che hai il sonno duro.- dice mentre lava qualcosa sotto l'acqua.
- Uhm ! Quando prendo sonno...
Sul bordo del muretto che divide le latrine c'è tutto l'armamentario occorente per l'occasione.
- E gli altri ?.- chiedo.
- Non ce ne è abbastanza.- risponde con gli occhi fissi su quello che stà facendo.
- In giro c'era un sacco di madama e non si trovava niente. Dieci carte ho dovuto tenerle per darle alla guardia giù nell'entrata...
- E il buco nella rete ?
- E' impossibile rientrare di là. Tieni. - conclude passandomi il cilindro di plastica talmente sbiadito che la gradazione fatica a leggersi.
- Mi pare usata.- constato esaminandola con occhio critico.
- E' usata. Raccolta da terra causa farmacia di turno troppo lontana. Comunque, male che vada, una epatite vale sessantagioeni di convalescenza.
Un giorno forse verremo tutti riciclati in avvocati, medici, infermieri specializzati in analisi del sangue, dirigenti di multinazionali che passano sopra ogni valore e sentimento per realizzare il proprio obiettivo. In attesa del mondo nuovo non mi formalizzo sul pericolo di una ulteriore imissione di virus, e nemmeno del fatto che una parte di quello che mi spetta è ben avvolto in un pezzetto di stagnola che riposa, tranquillo, nelle tasche di Paco.
- Il filtro ?
- Tienilo tu.- concedo.
L'ago è spuntato e la mano è tremolante a causa del sonno, della carenza, dell'emozione di un incontro troppo atteso. Poi il sangue si fà strada, si coniuga con il liquido giallognolo e allora mi nasce il sorriso.
Coperta chimica, brodo caldo in una sera d'inverno, biglietto per un attimo di requie, è tutto lì in un cilindro di plastica, a portata di un colpo di pollice.
Solitamente gioco un po' con lo stantuffo, mi piace vedere il rosso che va e che viene, ma questa volta c'è l'incognita di un ago che potrebbe bloccarsi proprio sul più bello e schizzare tutto fuori, così spingo piano, con cautela.
- Cazzo, non è male. - mormoro mentre l'onda sale, rende pesante la nuca, la radice del naso, scalda la mia anima.
Paco è ancora lì che traffica.
- Vuoi una mano ?- chiedo sentendo che la mia voce è già arrocchita dalla depressione polmonare.
Scuote la testa, poi sorride.
- Com'è ? - domanda con soddisfazione.
Annuisco e accendo due sigarette, come di solito si fà dopo un pranzo o una buona scopata.
Ci lasciamo alle spalle il puzzo delle latrine e andiamo sotto il portico del chostro.
Seduto per terra assorbo il fresco del muro attraverso la schiena mentre l'orologio dell'ospedale batte l'una di notte, qualche povera anima cammina fumando incontro al mattino.
- Certo che sono proprio assurdi. Questo cazzo di orologio batte tutte le ore facendo un casino d'inferno e questo in un posto dove la massima parte della gente non riesce a dormire.
- Una cosa non assurda non trova posto nella vita militare.- commenta Paco.
- Sei un vecchio saggio tu- ridacchio con voce impastata - Ti servirà domani con quei tipi che ti hanno dato i soldi ?
- Boh ? - risponde alzando le spalle. - Chi se ne frega, tanto sono dei veneti !
- Non, sul serio!- riprende con foga rispondendo alla mia risatina - Mi stanno sui coglioni. Per loro esiste solo Cristo, i soldi e il vino ! Sono tutti ubriachi e bigotti oltre che Carabinieri. Sai il concerto che hanno fatto da te i Clash?
- Quello gratis.
- Esatto, quello. Da Fidenza siamo partiti in quattro, siamo arrivati a Castelfranco e zac! ecco lì i caramba. Documenti, solite storie e, stiamo già andando via che uno di loro mette la sua testa di cazzo in macchina, annusa e scova due cicche di spinelli nel portacenere. Morale: concerto perso e tutta la sera passata al comando ad ascoltare la paternale di un maresciallo. Veneto.
- Vabbè, non puoi prendere un carabiniere da esempio.
- No, lascia stare. Anche su alla mia caserma sono tutti di quella razza.
- Beh, anche dal Car da cui vengo io sono tutti veneti.
- Vedi ? Ho ragione o no?
- Ma dai! Come tutte le persone alcuni sono tizi in gamba e altri sono da bruciare.
- Al Car la gente non è ancora scoppiata.- dice dopo una lunga pausa
- Invece, da dove vengo io, la storia è un'altra.
Una storia brutta, pare, e anche lunga.
Con voce resa asonnata dll'iniezione, Paco mi racconta una brutta favola ambientata in un mondo parallelo dove regnano stupidità, arroganza, solitudine.
Cullato da quella ninna nanna chimica che ho dentro l'organismo, tengo le palpebre rilassate, la sigaretta che scandisce il tempo consumandosi tra le dita, il sonno allontanato da pruriti improvvisi. Quel mondo ora non mi può ferire, forse domani riuscirà a ghermirmi, ma questa notte no, questa notte sono protetto.
Percepisco un cambiamento nel tono di voce del mio compagno. C'è dell'ansia nelle sue parole e dopo le lunghe pause riprende il discorso su note isteriche. Sintonizzandomi meglio capto singulti sempre più frequenti che interferiscono con un discorso oramai arreso alla comprensibilità.
- Dai - mormoro voltandomi verso di lui proprio quando le lacrime iniziano ad uscire dai suoi occhi.
Dolcemente attiro la sua testa sulla mia spalla.
- Non ci voglio più tornare... non ci voglio più tornare là... mi fanno morire... voglio tornare a casa mia.
Ora abbraccio forte quel corpo così agile e sicuro di sè e ora indifeso lontani chilometri da una città amata e odiata, da una canna fumata su un Dyane parcheggiato lungo gli argini, da un ragazza baciata con la complicità della musica dei Doors.
- Io... quando ero a casa non mi facevo... gli odiavo i tossici... ma... non ci torno non ci torno lassù!
Mi arrivano in testa le piazze piene di gente, la scazzatura del sabato sera, i temporali visti dai colli, quattro culi che provano le sospensioni al ritmo dei Led Zeppelin, i cessi della stazione, mura antiche da cui fuggire e da rimpiangere.
- Non fare così, dai...- gli sussurro continuando a cullarlo.
- Ce la fai, credimi, ce la fai. Uno come te non può non uscirne. Cacciaglielo in culo. Sopravvivi.
Una anima in pena passa e lancia una occhiata fuggevole. Classificherà la situazione come una delle tante storie tra maschi che nascono non a causa di uno sbalzo ormonale ma per solitudine e disperazione. Dopo due passi la cosa finirà relegata in uno scomparto secondario della sua mente lasciandogli ,forse, solo una piccola sensazione di nostalgia per un attimo di conforto che, nel suo forsennato girovagare non trova.

3

- Ho già fatto un salto in medicina ma la suora non mi ha fatto entrare.
Il tizio di Bassano mi parla mentre punto le stellette sulla divisa di panno. Le ho trovate questa mattina sopra un pacchetto di Camel nuovo, in bella vista sullla borsa. Ho saltato la colazione e un tenente medico mi ha informalmente avvertito che, quasi con sicurezza, oggi avrò il foglio di convalescenza così, anche se praticamente ho dormito un paio d'ore, mi sento fresco e riposato.
- I tipi di Vicenza sono neri duri e ci aspettano dopo il rancio per andare a cercare Paco.
Mi sono concesso il lusso di farmi la barba non avendo oramai bisogno di esaltare la mia oggettiva e innaturale magrezza.
- No.- rispondo controllando nello specchio il mio stato.
- Cone no?.- si stupisce il tipo.- In fondo ci hai messo trenta carte.
- Trenta carte vanno e vengono. Anche i concerti dei Clash e la naja. Rimane solo la tua soppravivenza.
- Conservati - raccomando infine dandogli un buffetto sul viso ottuso.
Poi, con passo quasi marziale vado ad affrontare l'ultimo ostacolo tra me e la mia continua fuga.
- Mi dai 50 carte che devo andare a farmi fare un prelievo ?
- Se avessi 50 carte andrei al centro prelievi delle nigeriane di Via Tuscolano che chiedono solo 30. E con i 20 che avanzano andrei a mangiare alla Sosta. - rispose Andrew ignorando la mano tesa.
Renzone sogghignò allungando la mano verso il bicchiere di amaro, considerò che non c'era tanto liquido nel bocchiere e ripiegò su una Diana rossa.
Fino ad allora la serata era stata loffia, troppo loffia. Era smontanto dal turno delle 18 ed ora, dopo tre ore buone buone era lì, impantanato al tavolino di plastica sotto il portico.
- vieni con me Renzone che ti porto in un posto buono ?
Lui era già due ore che era l a quel cazzo di tacvolino a cenare con l'Unicum e non aveva nessuna prospettiva di far girare la serata. Ma dato che era un predatore da Bar e sapeva che bastava pazientare e qualcosa, prima o poi, succedeva o arrivava era stato l a bere ed aspettare. Nonostante la grande, grandissima noia che aveva, cercè di darsi un tono giusto per far capire che Renzone non andava poi in giro al primo invito.
Quindi si tormentò mustacchi ingialliti dalle Diane e, serissimo, chiese:
- dove si và ?
Andrew guardò un attimo quel faccione reso più roseo dalla corona dei lunghi capelli bianchi, si fissò un attimo sulle eruzioni cutanee che stavano apparendo sulla fronte di Renzone e la cosa gli diede un involontario sguardo serio e profondo. Così quando disse : - fidati Renzone, ti porto in un posto e basta. - l'altro , che avrebbe seguito anche chi gli avesse proposto di sbadilare letame pur di schiodarsi dal pantano del bar, ebbe la scusa per dire: - Ok, finisco questo e sono con te.- e non era arrivato all'ultima sillaba che l'amaro era oramai solo ed esclusivamente un problema del suo fegato.
Andrew manovrò la sua rispettando una delle regole del bar: uscire dal parcheggio senza far spostare le macchine che ti chiudevano, e se la cosa riusciva dopo un tot di bevute, erano punti guadagnati.
- soccià se sapevo che avevi uno stereo così, prendevo una delle mie cassette.
- Non lo so Renzone, è un bagaglio che và e non và- rispose Andrew temendo che l'altro avesse nel borsello un nastro di Franco Paradise.
- No, ma dicevo così, sai che io ho scritto delle canzoni per Franco Paradise no ?
- Sì, me le hai fatte anche sentire. C'era quella sulla amicizia tradita…
- Esatto.
- Che poi mi hai detto che è una storia vera eccetera eccetera.
- Proprio lei. Al prossimo incorcio gira a destra.
- Dovevamo andare dall'altra parte.
- Giri poi alla traversa, ma volevo passare di qua a vedere se c'è ancora quella russa…
La vecchia auto si destreggiava bene nelle strade deserte di una delle tante piccole zone industriali alla periferia della città. Quattro o cinque isolati di capannoni delimitati da strade in cui le macchine aziendali parcheggiate nel pomeriggio lasciavano il posto, appena si accendevano i lampioni, alle prostitute. Mentre si avvicinava il cartello che annunciava il confine della città con l'hinterland as Andrew venne in mente che recentemente si era volto il GP di Formula 1, cosa che lo interessava meno del campionato di cricket ma che era tra i massimi interessi del suo passeggero. Così, a livello preventivo, buttò lì un argomento neutro.
- Chi c'era lì al bar ?
- Stasera non c'era un cazzo. I soliti scoppiati. Oramai il posto si è rovinato. Io lo frequento di meno.
Andrew evitò di indagare sui parametri del più e del meno considerando che oramai Renzone poteva quasi dirsi socio del barista, trascorrendo quasi il medesimo tempo nel medesimo locale.
Quindi saggiamente (e ruffianamente) ne convenne pigiando un po' di più il pedale dell'acceleratore su uno stradone tanto bastardo da non sapere se era ancora città o già campagna.
- Forse ho capito dove mi porti.
- Non ti dico un cazzo Renzone.
Erano entrati in uno di quei paesi subito fuori città, paesi che lo erano di nome, di storia e amministrativamente, ma che in pratica ora potevano definirsi solo ed esclusivamente dormitori. Ad un incrocio su cui si affacciava una vecchia casa colonica in demolizione, l'auto girò verso un gruppo di case tutte uguali e apparentemente disposte da un urbanista con seri problemi mentali, poi prese un'altra strada che finiva nel cemento. Parcheggiò (o meglio: spense il motore) in fondo, dove c'era il cordiolo di cemento che delimitava una decina di metri di erba incolta al di là della quale si vedevano fioche luci. Sembrava impossibile con il buio, ma lì, fino a qualche anno prima c'era un capolinea di una linea del bus. E tra quelle fioche luci ce ne era una di un bar.
E dove c'era un capolinea coincidente con un bar, c'era un ricordo di Renzone.
Con insospettata agilità, questi uscì dall'auto, si grattò la buzza, infilò il borsello sotto braccio e trovò subito un sentiero lastricato nascosto tra le erbacce.
Andrew riuscì a superarlo proprio in tempo per spalancare la porta del locale, buttare una occhiata dietro al bancone e lanciare un tonante:
- Ciao Gualtiero, guarda chi c'è !
Un uomo che dimostrava almeno 5 anni di più di quella che aveva, uscì da dietro al banco mettendo a fuoco la porta attraverso le occhiaie e il fumo della sigaretta.
Poi, il labirinto di rughe si distese in un sorriso che faticava a tenere a freno una dentiera bisognosa di un tagliando.
- Ma chi mi hai portato ! Il mio amico Renzone !
L'abbraccio tra i due apparve più un incontro di sumo. Alla destra Renzone: polo blu in terital che tirava di brutto sulla prominenza alcolica della pancia, cappelli all'omero con vaghe striature giallognole tra il bianco, borsello abilmente tenuto sotto l'ascella.
Dalla parte opposta il barista: permanente vecchiotta e bisognosa di un ritocco di tintura nera che arrivava sotto la scapola lasciando una striscia grigia sulla camicia bianca infilata nei jeans, sigaretta ultraleggera con cenere in precario equlibrio, accento ferrarese.
All'incontro, intanto il bar si era fermato. Non ci voleva molto, dato che la vita nel locale sembrava fissata in un tempo immobile scandita dai ritmi alcolici. Ampio, con due vetrine che davano sul marciapiede, la sala principale era atraversata da un lungo bancone ad angolo di fornte la quale troneggiava un tv seguita vacuamente da un maghrebino avido di ogni termine linguistico italiano. Alla sinistra del banco, una sala con qualche tavolino occupato dalla tossica ufficiale del paese e da un pensionato meridionale, in fondo una teorie di macchinette mangiasoldi con davanti un paio di personaggi in stato catartico.
Intanto i due protagonisti si erano finalmente sciolti dal lungo abbraccio finito in un pareggio.
- Come stai ?
- Non c'è male, e anche tu ? ti vedo in forma,
- Hai visto che te lo avevo detto che te lo avrei portato ? - si intromise Andrew sentendosi molto la Raffaella Carrà che riunisce famiglie dopo ventenni.
- Cosa bevi Renzone ? Guidi ancora i bus ?
- Ssssè ! prenderei un unicum. E tè suoni ancora ?
- Oramai solo ogni tanto. Ho preso una tastiera che è una favola ma sai… il bar, il tempo.
- ehh… tu sì che stai bene…
- Ma c'è il mio amico Renzone ! che piacere, che piacere…
- cosa ti avevo detto: che te lo portavo no ? io prenderei una Ceres.- interloquì ancora Andrew trovandosi in mano un bicchiere tracimante lo stesso J& B che riempiva il bicchiere del barista.
- Alla amicizia ! - urlò questi brandendo il wisky come la fiaccola della statua della libertà.
Seguì un logico brindisi a cui si associò la tossica di paese con la sua Moretti da 66 cl e una frase in maghrebino detta da qualche parte laggiù, vicino al bancone.

- Quando facevo capolinea con il 98 prendevo sempre una piada e qualcosa da mandarla giù, e ci frequentavamo sai ? l'ho anche seguito quando faceva le serate con l' Orchestra. Molinella, Ostellato, Codigoro. Paesi di mmerda. Era bravino sai ?
-Uhmm uhmm
Andrew dapprima aveva provato a calcolare quanti soldi gli ersano partiti nei vari giri di festeggiamento della riunione dei due personaggi. Poi, considerano l'impresa improba , si era concentrato nella duplice operazione di guidare con il suo pilota automatico alcolico inserito e di far finta di ascoltare Renzone ponendo, di tanto in tanto una domanda intelligente.
- No, ci siamo frequentati per un bel po' di tempo. Sua moglie, la Lina, cucinava una anguilla che era una favola. Loro sono di là: Comacchio, Portomaggiore o uno di quei paesi di mmerda lì.
L'autista prese in considerazione l'idea di sfruttare un semaforo rosso per vomitare, poi trovò le sigarette, considerò che la tossica gliene aveva scroccate più di quelle che credeva e partì non aspettando il verde.
- Siete molto amici dunque.
- Io non ho amici. Al limite conoscenti.- sentenziò Renzone - e poi stò cancellando anche quelli.
- Vabbè, il problema è quello che ti dico sempre: sei troppo buono e la gente se ne approfitta.
- Sssè ! diciamo che è così. Comunque con Gualtiero ero di famiglia. Soccia la fighina che c'era prima l'hanno già caricata. Lo dicevo io.- considerò lanciando una occhiata professionale alle battone.
- Ma sai Renzo, quando abitavo lì da quelle parti quel bar lì l'ho un po' frequentato. Niente di che, tipo che alla sera era difficile che ci passavo. Più che altro colazioni. Poi mi hai detto che conoscevi il posto e così lo dico al barista e questo inizia a fare dei gran squasi come se avessi parlato di suo fratello emigrato in Australia e mai più rivisto.
- Eh… - sogghignò Renzone - a volte lascio dei bei ricordi.
- Peccato che non c'era la moglie. Lei la conoscevo un pelo di più, sempre un complimento per mia figlia... Da giovane doveva essere stata una gran bella donna. - concluse Andrew accostando ad una doppia fila di auto di fronte al consueto bar.
- Guarda mò qui com'era.
Andrew spense il motore e accese le luci interne prendendo in mano le foto che Renzone aveva estratto dal portafoglio e che gli stava porgendo.
Nella prima c'era l'amico. Pareva uguale ad ora ad eccezione di un ventre molto meno prominente, ma ad un esame meno approfondito si notava che i consueti baffoni e i capelli lunghi erano ancora neri. Seduto su un cofano di una Giulietta 1300 coupè teneva un braccio intorno alle spalle di una donna che Andrew riconobbe come la moglie del barista al netto di anni di sacrifici e lavoro.
- Già. Era una gran bella donna. -commentò serio.
- Anche una gran bella chiavata se è per questo. - concluse renzone aprendo lo sportello prima di aggiungere:
- Bevi qualcosa ?

AMORI

- Ma come ho fatto... – mormoro guardando una vecchia foto o evocando un ricordo seppellito dagli anni.
Eppure... quel viso che incrocio e con cui, magari scambio due o tre parole di circostanza, un po’ imbarazzate e non più complici, quel viso che ho baciato come se non esistesse niente altro al mondo, quel viso di cui ora cerco i tratti che mi avevano attirato trovando solo i segni del tempo. Quel viso un tempo l’ho amato. Anche se sembra impossibile, è giusto così. L’amore non ha gerarchie o classifiche. È chimica, è storia è tempo. È un percorso senza una meta definita. E come tale ha le sue tappe fatte di soste, su strade che si intrecciano, si incrociano, si superano, si intersecano e si divaricano.
Tappe a volte dolorose e sempre infinite lontano dalle quali c’è sempre un altro orizzonte fatto di altre persone o magari sempre le stesse ma in un altro tempo.
Un fiume che scorre lasciando fertili detriti dove nasce il nostro vivere.


1) L’ Amore totale:

Raccolgo una bambola abbandonata sul divano
c’è anche una cuffia scelta da lei
comperata da me
anche se non mi piaceva poi tanto
Sospirando raccolgo anche un guanto
e mentre poso il tutto nella sua camera
un lento e dolcissimo struggimento
mi scalda il cuore.

Bellissimi
Mi lascio andare in quel mare di parole
Cullandomi passivo, in quella voce
Ieri da paperina oggi da donna,
sulle onde di una conosciuta ed amata orgogliosa giovinezza.
Nelle parole, forse più che nei lineamenti
Trovo la crescita del mio ieri
E me la coccolo
Me la accarezzo
Me la proteggo
Poi interrompe il flusso delle sue parole per chiedermi:
“Che c’è papi ? sei sveglio ?
e riapro gli occhi beato anche della sua preoccupata irritazione
“Certo amore. Sto bene. Sto da dio”

2) L’ Amore prigioniero:

Basta la luce
per rivivere una magia
di una sera mai trascorsa
di due mani solo sfiorate
di una tensione che
come dolce ricordo
accompagna passi oziosi e senza meta
in una notte la cui luce
è quella di una candela

3) L’ Amore finito:

Non mettere i piedi sul divano per favore,
Quando lo comprammo
ci tenevamo ancora
per mano.

4) L’ Amore vulnerabile:

Non sono le parole
ma da dove escono.
Da quella bocca che è
tepore di cuscino
abbraccio di un bambino.
Vedere la complessità delle cose
dentro ciò che è e ciò che è stato
trovare la semplicità di un gesto
l’importanza di un bacio non dato.


5) L’ Amore desiderato:

Bello sarebbe amarti d’inverno
trovare la tua mano gelida nella profondità della tasca
riscaldare il naso sul tessuto dei tuoi vestiti
intuire le tue forme sotto al mio maglione, dopo l’amore
e scrivere i nostri nomi sulla condensa del vetro
per poi vederli sfumare
sapendo che basta un bacio
per farli rinascere.

6) L’ Amore dalla vita rubato:

Per Ciccio:
Forse sei lì in quella montagna
testimone delle risa e degli accordi di blues padano
Ti sei sdraiato in lei
insieme ai nostri sogni,
insieme al nostro voler vivere,
insieme al nostro amato caos
E poi tutto è stato coperto di polvere
Polvere bianca...


7) L’ Amore genetico:

Fiori
colorati
come un mattino di primavera
Fiori
profumati
come l’odore della propria casa
Fiori
freschi
come una confortante carezza
Fiori
che Ti vogliono bene
…come noi


Perso nel mio correre
stanco e arreso sul confine
della mia vita,
sentii la sua mano che tentava
, inutilmente, di piegare
la sua innata ruvidezza all’amore.
Aggrappato a quella carezza
pesante e dolce
cercai di dire quelle parole
che anche dopo, dopo anni,
mai non riesco a partorire:
ti voglio bene.


8) L’ Amore ricordato:

La luce di una candela fà luce
sul ricordo della tua voce.
Abbastanza fioca da addolcirne le tonalità
Abbastanza forte da esaltarne le armonie
Ideale, per farmi rimpiangere la tua assenza.


9) L’ Amore ritrovato:

Ciao Amica
E ci rivedremo tra vent’anni
o forse tra più di cento
in un mondo più giusto
solo dentro di noi.
E con le dita toccheremo i nostri volti
seguendone le rughe
piano piano
come percorrendo una strada
che riporta a casa.


10) L’ amore andato via:

I rumori quotidiani
sono sottofondo alla mancanza
dei tuoi passi sulle scale,
della chiave nella serratura,
della tua voce
con qualsiasi aggettivo
comunque tua.
Stupidità meccanica
di una lancetta dei minuti
che oltrepassa ogni tempo consueto
lasciando l’angoscia di un tempo a venire
dove tu non ritornerai più.



11) L’ Amore istintivo
Vorrei che esistesse un luogo,
magari là tra le nuvole,
fatto di prati
dove correre
con la lingua a penzoloni
inseguendo un volo di farfalla
o una pista con fiuto cacciatore.
Vorrei che un posto così esistesse
magari lassù tra le nuvole.
E' facile immaginarlo qua da noi
dove c'è solo nostalgia
e il ricordo
di un grande amico.


12) L’ Amore immortale
Un oggetto,
naufrago nell’ esistenza,
si arena tra le tue mani.
E mentre il ricordo diventa dolore
un battito d’ali
lieve e impalpabile ti sfiora.
Lo cerchi con lo sguardo
trovando solo il tuo quotidiano
Ma ora, le tue lacrime
incontrano un tesoro.
Per quanto malinconico
è un sorriso di memoria.


Moijto girl

Lago di ghiaccio, liquore e menta
tracima dal bicchiere e si disperde in me
lasciando sedimenti
di benessere e conforto.
Freschi e inebrianti quel tanto
per arrivare in fondo a questa calda sera,
ma non abbastanza capaci
di annegare la tua assenza.

UNA ESTATE.

- No, io ti dico solo un nome. Solo uno: Zico. No, ho detto Zico. Capito ?
Presi quelle quattro lettere lanciatemi dal collega, le abbinai al mio cognome e le feci andare avanti e indietro. No, non funzionava.
- No, perchè ora ti dico: quando lo rivedi giocare Zico ? Eh ? Tra quattro anni ? E tra quattro anni tu dove sei ? - continuò il mio collega imperterrito.
- Sono con un figlio di poco più di tre anni.
Questo me lo avevano comunicato solamente la sera prima, durante uno di quei dopo cena apparentemente tranquilli, con la mia persona svaccata sul letto di lei a leggere un fumetto mentre si faceva venire l’orario per uscire.
- Senti. Ti dico una cosa.
- Uh ?
- Hai presente che questo mese non mi venivano ?
Certamente che lo avevo presente. Come lo avevo avuto presente tre mesi prima e ancora un paio di volte almeno.
- Stavolta ci siamo.
Probabilmente avrei dovuto dire qualche cosa del tipo "E’ meraviglioso !" poi abbracciarla commosso, andare di là in cucina ad annunciare ai suoi genitori il nostro matrimonio e cose del genere. Ma ero su un ottovolante e avevo preso una curva bella tosta, così rimasi muto.
In quel mio silenzio lesse qualche cosa e proseguì: - Non ti chiedo assolutamente nulla, non ti preoccupare. Ti vorrò bene lo stesso e tra noi non cambierà niente. Io lo terrò comunque. Fai come ti senti di fare.
L’ ottovolante fece un’ altra curva regalandomi una veloce visione di un pargolo uguale a me, di un pallone di cuoio, di una bambolina di carne che mi chiamava papà...
- Se è femmina non c’è problema.- riuscii infine a dire. - Ma se è maschio come lo chiamiamo ?
Rincasai ad un orario imprecisato oltre la mezzanotte e con il mio futuro status di padre messo in secondo piano rispetto alla voglia di dormire.
- Buonanotte. - sentii sussurrare alle mie spalle e sussultai mio malgrado nel vedere il fantasma bianco che si vedeva in corridoio.
" Come mai sei ancora alzata ?" mi venne da chiedere in maniera sgarbata. Ma conoscevo già la risposta. Era stata in bagno. Ci andava sempre quando rincasavo di sera, fosse stata l’una o le due o chissà che ora. Quindi mi limitai ad un - Buonanotte mamma.- mentre mentalmente prendevo l’appunto di cercare perlomeno di fare finta di dormire quando il mio erede sarebbe rientrato all’ovile.
Il mattino dopo la mia corsa pareva essersi fermata. Alle rosee visioni della sera prima nate sull’onda dell’euforia ne erano subentrate altre di pannolini sporchi, di notti in bianco e di pianti disperati quanto misteriosi.
Ma non era quello che mi preoccupava più di tanto (anche perché mi mancava una visione generale della questione) quanto una frase che lei aveva buttato lì: - Come la prenderanno i tuoi ?
- Bene. -avevo risposto sicuro. E sicuro lo ero davvero. Non l’avrebbero presa male: mia madre forse si sarebbe messa a piangere combattuta tra l’ansia e la gioia; mio padre avrebbe dato un po’ in escandescenze per poi disperarsi pensando a come scombinavo le sue aspirazioni su di me e i suoi risparmi; entrambi avrebbero parlato dell’incoscienza del sposarsi a vent’anni senza casa e con un lavoro che da lì a 15 giorni sarebbe terminato.
Logico quindi che non morissi dalla voglia di raccontare le novità e che volessi dare a loro circa otto ore di quiete prima della tempesta.
Ma quando mi presentai, quella mattina, al mio più che precario posto di lavoro con contratto a termine, mi resi conto che sarebbe stata una quiete molto, molto, relativa.
L’Italia di Bearzot aveva battuto l’Argentina e ora doveva affrontare il mitico Brasile di Socrates, Zico, Cerezo e altri nomi più o meno fantasiosi come il calcio che esprimevano.
Ai brasiliani bastava un pareggio per superare il turno, mentre i miei connazionali avevano l’obbligo di vincere. Una possibilità che anche il più ottimista dei tifosi non osava sperare a voce alta.
E di ottimisti ce ne erano pochi e comunque nascosti in mezzo ai tanti commissari unici, tecnici, critici, e Cassandre varie. Io mi tenevo ai margini del coro. Da quando il mio personale mito , Beppe Savoldi, era andato via da Bologna, prima la pallacanestro, poi un sdegnoso e un po’ snobistico disinteresse sportivo, mi rendeva un consapevole incompetente. Logico quindi che, con la scusa della pausa pranzo, cercassi un po’ d’aria dagli asfittici argomenti di quel giorno buttandomi nell’altrettanto asfissiante canicola estiva.
Fuori dal problema dei Mondiali, la mia questione tornò a galla in tutto il suo splendore.
"Stasera bisogna che dica tutto ai miei. " ragionai "In fondo quale sarà il problema ? Giusto la paternale che mi faranno. Diranno che ora dovrò comportarmi da uomo. Responsabile e maturo."
Era indubbio: i due termini mi agghiacciavano ed evocavano quei scenari borghesi che evitavo come la peste. Però era necessario. Non potevo diventare marito e,sopratutto, padre continuando a fare la vita che facevo. Basta con i sogni di rock n roll, gli atteggiamenti da rude boy, gli eccessi notturni. Era ora di diventare grande.
Programmare una carriera, scegliere un mutuo, fare un progetto, risparmiare per qualcosa di importante e duraturo.
Sì, sarei stato un vero capo famiglia.
Nel frattempo entrai in un negozio di dischi e mi comperai un paio di LP. Doppi.
Probabilmente qualche residente bolognese era già al mare, forse madre e figlio che cercavano riposo su qualche spiaggia adriatica di bassa stagione attendendo il marito per il fine settimana. Mi venne in mente il mio vago progetto di partire per il Marrocco e sentii il bisogno di una birra. Il tizio dietro al bancone mi liquidò tanto frettolosamente che presi in seria considerazione l’idea di attaccarmi al barile della spina e svuotarglielo tanto non mi avrebbe sicuramente visto considerato che aveva occhi e mente in collegamento diretto con un tv portatile da cui uscivano le note dell’inno nazionale.
Il ritmo dei miei passi per una Bologna calda e deserta si inseriva bene nel silenzio rotto solo dal rumore di qualche raro veicolo e dalla voce di Martellini che si propagava come una lontana eco sotto i portici. Lo scenario mi piaceva e aveva un potere distensivo sui miei nervi. Tra breve sarei arrivato a casa e avrei parlato con i miei genitori. Con calma, dicendo le mie ragioni e ascoltando le loro. Mi avrebbero visto così determinato e responsabile che non avrebbero potuto fare a meno di mettere da parte le loro angustie e godersi il loro nuovo status di nonno.
Ma quando l’autista del bus, che guidava con una radiolina accesa appesa al cruscotto, mi scaricò alla fermata in un tempo da record, avrei preferito che la strada fosse lunga kilometri infiniti per posticipare l’incontro.
Infine, arrivai alla porta di casa.
Presi fiato ed entrai.
Immerso in un volume spropositato, mio padre guardava la partita mentre mia madre frugava nei cassetti della credenza.
- Ma li avevi anche ieri sera ? - chiese
- Ti ho già detto di sì.- rispose lui frettolosamente.
- Prima mi avevi detto di no.- rimbeccò lei vagamente inquisitoria.
- Cosa vuoi che mi scriva tutte le volte che mi metto e mi tolgo gli occhiali ?
- Come sei nervoso ! Non avrai mica scommesso al bar ?
- Cosa avete perso ? - intervenni
- Tuo padre non si ricorda più dove ha messo gli occhiali da guardare la televisione. - mi informò lei.
Capii di essere arrivato in pieno dramma.
Un solo paio di occhiali in due, il Brasile in tv e il "pater familias" di casa costretto a fissare lo schermo attraverso due lenti affumicate benché graduate.
- Come stanno ?- volli sapere sedendomi con una birra.
- 2 a 2.- rispose senza guardarmi - Ma non ce la fanno.- aggiunse in un impeto di ottimismo.
- No eh ?
- No. Non si può andare in vantaggio due volte con il Brasile e farsi prendere e a loro basta solo un pareggio per classificarsi e... a casa a casa a casa !
Guardai sullo schermo una giustificazione a quel crescendo e intravidi un italiano che spazzava il pallone lontano dall’area.
- Senti papi - iniziai esitante - Ti ricordi tutto quel discorso sulla responsabilità che mi hai fatto quella volta che ho graffiato la tua macchina uscendo dal garage ?
- Eh !
- Beh, ti volevo dire che avevi ragione. Un uomo si vede anche da come si assume le sue...
- ROSSI !!!- urlò Martellini
- E GRANDE !!!- esclamò alzandosi in piedi e unendosi al frastuono della Tv.
- Hai trovato gli occhiali ?- chiese mia madre entrando in quel momento.
Rividi alla moviola il goal del Paolino nazionale, mentre mio padre si aggirava per la sala, andava al frigo, lo apriva, lo richiudeva senza prendere niente, tornava e commentava:
- Ma pensa tè ! E’ magro più di te e ha fatto già tre gol ! Dicevi della assicurazione ?.
In silenzio presi un’altra birra e guardai oziosamente lo schermo che rimandava le splendide ma inconsistenti evoluzione dei brasiliani, l’arroccamento italiano, le proteste di Zico per la marcatura di Gentile. Pensai vagamente che probabilmente il terzino avrebbe già sputato il rospo, senza paura, come fosse un intervento in scivolata sul filo dell’area e cercai di costruirmi mentalmente il discorso. Ma ero sempre più distratto dalla tv e dal vagare di mio padre che toccava tutti i punti della sala commentando ad ogni scalo "Non finisce più" o "Soccia che partita ! " o entrambe le cose, oltre allo scaramantico " A casa" ogni qualvolta i brasiliani passavano la metà campo
A questo si aggiungeva il controcanto di mia madre che alternava un "Abbiamo segnato ?" a "Va bene se da cena faccio i fagiolini ?" ottenendo in cambio, risposte al limite del grugnito.
In breve dimenticai le mie angustie e, pur sapendo solamente il nome di tre o quattro dei nostri giocatori, mi trovai in piedi ad inveire contro l’arbitro che non fischiava mai la fine.
Quando il dramma carioca fu finalmente sancito abbracciai mio padre e , già che c’era, anche mia madre di colpo coinvoltissima nell’ evento.
- Dai papi. Facciamo un brindisi. - proposi tirando fuori dal frigo la bottiglia del vino.
- Quello lo bevo a tavola. Vado giù a prendere una bottiglia buona.
- Con il casino che hai in cantina lo trovi quando ci saranno gli Europei.
- Non hai già preso due birre ?
- Mamma, la Nazionale ha battuto il Brasile ! Te ne dò un po’?
- Un dito solo che ho lo stomaco...
Misi a tutti il bicchiere in mano e, levando il mio , declamai:
- Alla Nazionale Italiana ... e al nipote in arrivo.
Poi svuotai in un solo sorso tutto quanto. Giusto per ritardare di un altro attimo l’incontro con le loro facce.

Storia con eroi


- Ma sei ancora lì con quel latte?
Chissà mai perché la nonna si stupiva ? Oramai doveva essere abituata, alla domenica mattina, ai miei indugi sulla tazza della colazione.
- Scotta !
La temperatura del liquido era solo una delle scuse che avevo in serbo per starmene lì seduto sul mio personale sgabello a guardare i grani di polvere risalire la luce del sole. Il fenomeno era simile alle bolle di sapone, solo che le fragili sfere si potevano vedere mentre il mio soffio le formava, i granelli no, non ne vedevo origine e destinazione. Dove andavano ?
- Mettici un po' di latte freddo.
- Sì - rispondevo prendendo una lunga sorsata dalla tazza di stagno e rovesciando il rimanente nell'acquaio controllando che non mi vedesse.
La nonna arrivava dalla camera senza l'usuale vestito da casa, con il cappotto verde scuro dal collo di pelliccia e i capelli più bianchi del solito per effetto della spazzola. Chiudeva le persiane e cercava di mettere ordine nella mia riottosa capigliatura mentre mi attardavo a guardare ancora il misterioso pulviscolo che risaliva le sottili strisce di luce fino a raggiungere, ne ero quasi certo , il sole.
Mi piaceva il sole, specie quando scaldava una giornata invernale. Sembrava una promessa e si sa, per i bambini le promesse sono sacre. Così trotterellavo allegramente al fianco della nonna che marciava spedita rispondendo cortese ai molti saluti dei passanti. Però non si fermava, a differenza di quando faceva la spesa e ogni pilastro del portico era buono per scambiare due chiacchiere mentre io, annoiato dalle cronache orali della strada, mi sfidavo a stare il più tempo possibile in equilibrio sul piede sinistro.
Alla domenica mattina non c'era tempo per le soste, neanche a quella abituale di fronte alla immagine della Madonna, in fondo alla strada. Al massimo un bacio mandato sulla punta delle dita. La Madonna era sempre lì, il filobus, invece, andava via.
A me pareva la tradotta militare che avevo visto in fotografia. Forse per il colore verde oliva o per lo snodo di gomma che lo divideva in due come i vagoni dei treni. Dentro era bellissimo, con il gabbiotto del conducente pieno di leve e pulsanti, le porte pneumatiche e il mondo, per me ancora irraggiungibile, dei sostegni lassù in alto. Circa i posti a sedere c'era solo l'imbarazzo della scelta: nei sedili a coppia disposti in modo da vedere fuori dal finestrino, o in quelli singoli rivolti verso il corridoio.
Io, appena potevo, mi arrampicavo dove stava il bigliettaio prima di essere sostituito dalle macchinette. Con il seggiolino imbottito e un ripiano sul davanti si stava più in alto di tutti e dato che era stretto potevi anche fare la finta di cedere il posto agli anziani che sempre dicevano un po' spaventati:
- No, no grazie.
Il filobus faceva un sacco di rumore ed era sempre un viaggio pieno di scossoni. Ogni tanto un colpo più forte faceva uscire le guide dai fili e allora l'autista doveva scendere e, impugnando una lunga stanga rimettere tutto a posto che se no non si ripartiva. In quei casi c'era sempre un passeggero o un passante che iniziava a dare consigli, ma spesso l'occhiataccia del conducente lo zittiva.
C'erano forse una dozzina di fermate che ci separavano dalla meta, e a me pareva un viaggio lunghissimo. Usciti dal centro si superavano la strada dove abitavo, la chiesa e la casa di mia zia, limite estremo della mia autonomia. Sapevo che quella linea arrivava fino a dove abitava una mia seconda zia, lontanissima, addirittura oltre un cartello con indicato il nome della mia città e sbarrato da una riga rossa.
La sua casa era diversa da quelle che conoscevo. Innanzitutto non aveva gli scuri, ma delle specie di saracinesche in plastica che si tiravano su e giù con una corda ed erano belle anche se non si poteva spiare fuori come con le persiane, e poi i pavimenti in marmo e le piastrelle azzurre sulle pareti del bagno, sicuramente la stanza più interessante dell'intero appartamento. Quando capitavo là, cercavo sempre di farmi fare il bagno. In quella casa moderna infatti, l'acqua calda usciva dal rubinetto e non bisognava farla prima bollire sulla stufa come doveva fare mia madre.
E poi la zia metteva nella vasca un liquido verde che faceva un buon profumo e una grande schiuma, e, a volte, rimaneva lì con me a giocare. Era divertente , ma avevo spesso l'impressione che, sotto sotto, mi fregasse perché con la scusa del gioco andava a finire che mi lavava sempre i capelli.
Alla domenica mattina la nonna e io non arrivavamo fino dalla zia, scendevamo prima, di fronte allo stadio dove, a volte, mio padre mi portava a vedere la partita.
Ce lo lasciavamo subito alle spalle , infilandoci per il lungo portico ingombro di botteghe di fiorai. Erano solo un centinaio di metri , umidi e colorati, poi ecco l'ingresso del cimitero comunale.
Quella particolare entrata immetteva nel settore più antico, di quando la città viveva ancora tra le sue mura. Seguivo la nonna in quel labirinto di porticati su cui si affacciavano stanzoni luccicanti di innumerevoli ceri, cercando le tombe con le date più lontane e stupendomi del realismo delle statue in marmo.
- Posso portare l'acqua? Eh … nonna, posso? - iniziavo a chiedere appena sui campi. Era un segno di maturità tenere il secchio verde e stare dietro alla nonna che sembrava guidata da una magica bussola: tagliava per un campo, svoltava un angolo ed ecco lì un parente!
I fiori secchi venivano sostituiti con quelli freschi, il marmo pulito, il tutto con gesti resi abili dalla pratica e mormorando preghiere a fil di labbra. Io le ero grato per quelle soste purché non si prolungassero più di tanto perché se no la noia mi prendeva e,soprattutto, non rimaneva il tempo di passare dal mausoleo dedicato ai caduti, dove le statue avevano le stesse pose dei miei soldatini.
Avevo solo una vaga idea di quanto fosse vasto il cimitero. Ai miei occhi appariva immenso, pieno di passaggi e scale misteriose che si moltiplicavano all'infinito. A volte immaginavo di perdermici e di trascorrerci la notte, nascosto a spiare i fantasmi che si levavano al chiaror della luna. Il pensiero mi incuteva angoscia e subito mi attaccavo alla mano della nonna.
Lei mi guardava un po' perplessa ma non rifiutava mai quel inatteso contatto. In quel luogo dove la fretta appare incongrua, la sua voce era finalmente purgata dall'ansia del finire un vestito per tempo, ed ero contento che quelle dita sforacchiate dal cucito stringessero le mie invece che il suo consueto lavoro da sarta. In quei momenti pensavo che, senza quella mano, non avrei mai osato mettere piede in un cimitero.
Il percorso era sempre lo stesso, con poche, fuggevoli variazioni: un paio tra la gli innumerevoli fratelli e sorelle che aveva avuto, qualche cugina, i miei bisnonni. Infine suo marito, mio nonno. Avevo fatto in tempo a conoscerlo e mi era stato sempre ripetuto di come lui fosse stato contento della mia nascita , primo e unico maschio dopo tre figlie ed una nipote. Assolutamente ignaro del fatto di essere l'unico infante di cui il nonno si sia mai occupato in settantadue anni di vita, godevo del privilegio di viaggiare su un sellino installato sulla canna della bicicletta, di ricevere 20 £. da investire in semi di zucca e di interrompere scope e tresette in osteria per dichiarare che avevo sonno e diventare così prioritario ad un settebello e primiera messi insieme.
I miei amici avevano dei nonni molto imponenti, alti, grossi e con grandi baffi a manubrio o lunghe barbe bianche. Il mio era invece molto magro, con dei corti baffetti appena accennati e piuttosto basso di statura. La questione della statura non mi dispiaceva, anche perché, nelle sere d'estate, portava uno sgabello vicino alla finestra ed io, da lì sopra, ero alto come lui e allora veniva bene fare discorsi tra uomini o semplicemente ascoltare le tante voci di una strada abituata a vivere a cielo aperto.
Dirimpetto alla finestra c'era un muro altissimo da cui spuntavano dei rampicanti e, talvolta, anche la luna.
- Nonno, per te cosa c'è sulla luna ?
- Mah, a me dicevano che ci sono tutte le cose che uno ha perso.
- Anche i giochi che non trovo più ?
- Tutti.
- Delle volte io non uso i giochi, penso, che so, di essere un cow-boy e mi diverto lo stesso. Forse quando smetto di giocare anche i pensieri vanno lassù, eh nonno?
- Probabile.Da qualche parte devono pure andare.
- E quando sono lassù che fanno ?
- Ah, c'è qualcuno che li tiene da conto. Vedi - indicava la luna - vedi che sembra una faccia ? Gli occhi, il naso, la bocca...
- Ma , a me la nonna ha detto che quella è la faccia di un bimbo che è stato mandato lassù perché faceva arrabbiare.
Il nonno non si lasciava prendere in contropiede.
- Sì, ma poi stava così bene là che decise di fare il custode delle cose perse.
Mi lasciavo convincere facilmente da questa versione che non aveva quella punta di tristezza che mi creava la storia del bambino esiliato in cielo.
- Nonno, quando divento grande vado sulla luna e poi ti riporto l'orologio che hai perso. E se li trovo anche i tuoi capelli.
- Dei capelli oramai non mi importa più niente. L'orologio invece... andevà acsè ban.- concludeva con una punta di rimpianto.
Dopo pranzo dichiarava: - Adesso io e te ci facciamo un bel pisolino.
La cosa non è che mi riempisse di entusiasmo, però mi intrigava il suo tono di complicità e così lo imitavo: chino sul tavolo a braccia conserte o con la fronte posata sui pugni chiusi. Il sonno girava, girava e non veniva mai, aprivo un occhio, uno solo, e spiavo il nonno. Inquadravo solo la sua testa con la pelle lucida e tirata e le vene e i capelli intorno. Di volta in volta diventava un melone, un uovo di pasqua, un paesaggio.
- Nonno perché sei senza capelli proprio tu che fai il barbiere? - domandai una volta
- Cosa c'entra, un barbiere i capelli li deve tagliare, mica riattaccare.
- Sì, ma non mi sembra giusto.
- E allora, pensa mò ad un muratore che costruisce una villa e poi magari abita in una baracca !.
- E non può costruirsi una villa per lui ?
- Eh ! Mica è così semplice.- sospirò - E comunque io i capelli li avevo , e tanti e dritti come i tuoi.
- Davvero ? e poi cosa è successo ?
- Poi è venuta la guerra.
- Quale ?
- La seconda.
L'affermazione mi lasciava sempre un po' perplesso. Sapevo che aveva visto due guerre mondiali e che nella prima aveva combattuto tornando a casa integro. Come era possibile che fosse rimasto ferito nella seconda se non aveva nemmeno combattuto ? E nei capelli poi. Un mio amico aveva il nonno che era stato decorato perché mutilato ad un braccio durante il conflitto. Il mio avrebbe avuto una piccola medaglia per aver perso i capelli ?
Dalla scuola non arrivava granché in merito alla II° guerra mondiale, ma io ne sapevo abbastanza perché leggevo i fumetti "Super Eroica", le famose storie di cielo, di terra e di mare dove tedeschi e giapponesi più erano feroci più brutte figure collezionavano. Ma soprattutto c'erano i ricordi, ancora freschi, dei miei genitori, che spesso uscivano incontenibili ad una semplice mia domanda.
Del I° conflitto era invece più problematico trovare informazioni. Un libro di mio padre dove c'era un bel disegno di un ufficiale alpino che guidava un attacco tra morti, feriti e filo spinato, in piedi in mezzo al fuoco; il maestro che raccontava la storia di Enrico Toti e della sua stampella; la canzone del Piave; e il fatto che noi italiani, alla fine, quella guerra lì l'avevamo poi vinta.
Chiedevo conferme al nonno che però si limitava a rivangare un aneddoto di trincea con protagonisti un sergente antipatico ed un cavallo nervoso. Doveva essere un episodio piuttosto buffo, perché quando arrivava a metà si metteva a ridere fino a che il catarro prendeva il posto dell'ilarità, diventava tutto rosso dai colpi di tosse e correva nello sgabuzzino che faceva da bagno.
A me sarebbe piaciuto che fosse arrivato almeno una volta alla fine della storia, o che almeno avesse raccontato qualcosa d'altro, anche se meno buffo, ma lui alle mie indagini, dava sempre risposte che non mi soddisfacevano pienamente.
- Tu sei stato un eroe ?- chiedevo
- Mah! Ho fatto il mio dovere...
- E quale era il tuo dovere ?
- Di vincere, e di tornare a casa.
- E abbiamo vinto no ?
- Sai, gira e rigira, in guerra i poveretti come me non vincono mai.
- E allora chi vince nonno ?
- I "signori" ! Quelli non perdono mai !
E così il nonno pur essendo stato in prima linea non aveva vinto perché non "signore". Non era giusto pensavo, ci sarebbe voluta una guerra in cui i poveretti potevano vincere.
L'appartamento dove abitavano era composto da due camere, corridoio e una stanza che era il centro della vita quotidiana. Quella stanza era chiamata "casa" ed ogni altra definizione sarebbe stata stretta a quelle pareti lunghe e strette che riuscivano ad ospitare i fornelli, la stufa, tavoli e sedie e un piccolo water nascosto dietro una porta in legno. I ritagli di stoffa e i miei giochi che riempivano il pavimento erano illuminati dall'ampia finestra, unica distrazione della nonna che, di tanto in tanto, abbandonava la vicina macchina da cucire per affacciarsi e seguire qualche alterco giù in strada. A parte la camera dei nonni che dava anch'essa sulla strada, c'era la cameretta piena di vestiti solo imbastiti, roba da stirare e cose del genere, ma che una volta era stata la stanza della mamma e delle zie
Si bisbigliavano i loro segreti sdraiate su un letto che di giorno si trasformava in mobile, lo stesso che, teoricamente, doveva essere riservato al mio riposo notturno quando, e succedeva di frequente dormivo dai nonni. Ma la cameretta aveva una finestra che dava direttamente sulle scale e quando qualche nottambulo accendeva l'interruttore generale il manichino da sarta si animava, la vecchia poltrona piena di abiti era ostile e pericolosa e l'ombra della grata alla finestra si allungava sul soffitto, proprio sopra di me, con il proposito,certo, di inghiottirmi. Di corsa riempivo lo spazio del corridoio e saltavo sul lettone dei nonni infilandomi tra di loro. Nascondevo il viso tra le pieghe della camicia da notte di lei, ascoltando i borbottii del nonno che duravano poco, forse perché stanco, forse perché non troppo dispiaciuto di quella intrusione. Una sera un ubriaco salì le scale con il passo sempre più pesante per il vino e declamando maledizioni al mondo e subito fuggii ad avvertire l'uomo di casa ancora sveglio.
Saltai sul tavolo scompigliandoli le carte del solitario e annunciando:
- Nonno c'è un nemico !
- Che nemico ?
- Sembrava un uomo cattivo, ma potrebbe essere un soldato.
- Allora gli punti il fucile contro e dici: altolà! - spiegò mimando il gesto.
- Vieni tu a farlo.
- Perché ?
- Tu hai fatto la guerra, sai sparare con il fucile.
- Sì, però non avevo una buona mira, e poi non importa avere il fucile per ammazzare una persona.
Nonostante la guerra al fronte il nonno diceva che non aveva mai ucciso nessuno. Però io sapevo che ci era andato molto vicino subito dopo la fine del II° conflitto.
Stava arrivando il primo Natale della ricostruzione e nelle campagne e sui monti si sentivano botti isolati che non erano segnali di festa ma conti saldati in fretta prima della completa normalizzazione.
Lui stava giocando a carte quando era stato interrotto.
- Ven d'là ! Ven d'là !
- Aspeta un atum.
- Ven d'là at degh! Aiè un quel che te da vaddar !
- Cus el d'achsè impurtant ? Al Negus ?
- Un quel migliaur. Ven d'là che tal vaddet !
Aveva posato le carte un po' riluttante, che era da ancora prima della guerra che non aveva la possibilità di fare re-bello, primiera e gli ori, e aveva seguito l'uomo decisamente euforico nello stanzino sul retro, occupato da un mucchio di persone che si fecero da parte al suo ingresso. Ciò che avevano da mostrargli era una preda. Braccia abbandonate lungo i fianchi, i vestiti troppo larghi per essere i suoi, con il colletto della giacca tenuto saldamente da una mano larga, appartenente ad un uomo che, vedendo mio nonno esclamò:
- Vè mò cusa oia ciapè !
L'altro non si mosse, rimanendo a capo chino riparato da una zazzera arruffata e sporca. Non aveva bisogno di alzare la testa, perché mio nonno la conosceva bene quella chioma. Per anni ci aveva passato pettine e forbici discutendo di famiglia e politica. In tante sere l'aveva valutata criticamente tra una mano di tresette e un bicchiere di vino novello, consigliando, infine, una spuntatina. L'aveva anche indovinata sotto il fez, girarsi in maniera ostentata per non salutare il vecchio compagno socialista e ora nemico, o forse vergognosa del suo taglio fatto da mani meno abili ma più fasciste.
Sì, ricordava bene l'ultima volta che aveva visto quei capelli: in una stanza del Comando, china su un foglio dove si compilava la lista dei passeggeri di un convoglio diretto in Germania, con un biglietto di sola andata.
Quei vagoni non erano nemmeno usciti dalla stazione, aperti come carta da una bomba americana che aveva dato il via a quattro mesi vissuti in una grotta insieme a cinque persone con cui dividere pidocchi, fame e paura. Ora ecco lì un complice di tante amicizie tradite, di oggetti, persone ed affetti dispersi, di vite da rimettere insieme con coraggio e pazienza. Un complice da consegnare alle nebbie della storia senza nemmeno sporcarsi di sangue le mani. Provò lo stesso vago senso di nausea che gli veniva quando, da bambino, vedeva sgozzare il maiale, e si passò una mano tra i capelli come sempre faceva quando era indeciso sul da farsi. Ma invece dei capelli incontrò la pella venuta alla luce durante i mesi della latitanza. Sospirò e disse:
- Tatat ban cla caviera e pò va a let e cruvet. Barbazan tè e al Duce !
Volse le spalle tornando alle sue carte e liquidando così un ventennio di storia.
Tornavo dalle vacanze estive sempre pieno di energie e con tante nuove esperienze da trasmettere al nonno che, chissà perché, in villeggiatura non ci andava mai.
Quell'anno poi era successo qualcosa di importante: l'uomo era andato sulla luna ed io avevo seguito l'evento in TV.
- Dovevi vederlo nonno ! Peccato che non hai la tele!
- Sì, ma ho visto le fotografie sul giornale.
- Non è la stessa cosa dai !
Raccontai per filo e per segno tutta la questione, dalle divergenze tra i commentatori italiani circa i metri che mancavano all'allunaggio a i saltelli di Aldrin sul suolo del satellite. Infine lo informai che sulla luna non c'era nessun essere vivente e, cosa ancor più grave, nemmeno un oggetto smarrito sulla terra.
- Manderanno un altro razzo a cercare meglio.- fu il suo commento.
Stavo per rimbeccare che si diceva modulo lunare e non razzo, ma poi pensai che forse era dispiaciuto perché lassù non avevano trovato traccia del suo orologio, e così mi ripromisi di spiegargli la differenza in un altro momento.
Non ne ebbi il tempo perché l'autunno che seguì decise di andarsene con lui.
Lo sognai per la prima e unica volta nella mia vita: nel letto matrimoniale dei miei genitori stava con due cuscini dietro la schiena a riprendere l'antico vizio del fumo.
- Dicono che stai male.- lo informavo
- Lasa chi deggan.- rispondeva con una alzata di spalle. Poi iniziava a raccontare la storia del cavallo scorbutico e del sergente antipatico e sembrava che, per una volta, la tosse avesse deciso di lasciarlo proseguire fino alla fine.
Arrivò invece la voce di mia madre, agitatissima, ad interrompere il sogno.
- Il babbo stà male. -
Fu la mia sveglia quel mattino.
Una volta aperti gli occhi tutto iniziò a correre a grande velocità. La mamma , ancora in camicia da notte, che tentava di spiegarmi che c'erano dei problemi con il nonno ricoverato, da un po' di giorni, all'Ospedale cittadino; la corsa in macchina fino dalla zia; di nuovo le coperte di un letto; una ultima inutile raccomandazione per me e mia cugina:
- Dormite adesso e non preoccupatevi per il nonno.
Ma di riprendere il sonno non se ne parlava nemmeno.
Già il fatto di essere con la mia baby sitter preferita era per me una festa, perché, nonostante i nove anni di età che ci separavano, andavamo molto d'accordo. Con lei potevo leggere i suoi giornali di musica ed ascoltare i 45 giri dei Giganti e dei Rokets nel mangiadischi, in cambio le fornivo discrezione assoluta quando incontrava qualche ragazzo.
Dopo aver un po' disquisito circa la storia del nonno, la coperta fatta a mano mi convogliò verso discorsi più confidenziali.
- Hai fatto bene a non stare più con quello che giocava a calcio. Mi aveva promesso una foto del Bologna con gli autografi ma ...
- Cosa ne sai tu ?
- Quella volta che mi sei venuta a badare e se andata un attimo giù in strada, ho guardato dalla finestra e c'era un tizio con la moto.
- Ma era un mio amico !
- Però gli hai dato anche un bacio come a quell'altro! Ti ho visto dalla finestra ma non ho detto niente a nessuno, te lo giuro, neanche alla mamma!
- Di te mi fido.
- Davvero ?
- Se non era così mica lo facevo venire sotto casa !
Discorsi interrotti dalla serratura della porta. Mia zia attese di essere a fianco del letto per annunciare:
- Il nonno non c'è più.
- Questa è meglio che la copriamo.- proseguì attenuando la luce della bajour sul comodino con un fazzoletto e mentre mia cugina fuggiva dal letto lasciandomi , solo, preda di facili singhiozzi.
Le dita della zia indugiarono sulle linee dei miei capelli, dolcemente come il tono consolatorio della voce, fino a che il pianto non si calmò.
- Meglio che vada da quella figlia - mormorò - lei non riesce a piangere e tiene il dolore dentro.
Ma forse non si poteva chiamare dolore. Forse il nome esatto era paura.
Ora mia madre e le zie erano orfane a tutti gli effetti, come quei personaggi di storie strappalacrime che tentavo faticosamente di leggere. Per un nipote che aveva perso il nonno non c'era termine adeguato e così l'unica maniera per farmi compatire era di piangere. Nel tentativo di consolarmi qualcuno disse che il nonno se ne era andato in Paradiso vicino al Signore, ma la cosa peggiorò il mio stato d'animo, perché da che il nonno era entrato in ospedale non era passato giorno che non pregassi per una veloce guarigione rafforzando le mie orazioni con promesse . Invece quell'entità che mi avevano insegnato ad adorare se ne era completamente fregato dei miei sforzi. Lui che poteva avere tutti i nonni che voleva si era andato a prendere proprio il mio, come qualsiasi bambino più grande che ti ruba il gioco a scuola. E poi per portarlo dove ? In quel paradiso che pareva un luogo bellissimo ma che però, quando qualcuno ci andava piangevano tutti ? Perché disperarsi? Forse anche gli adulti, in fondo, non si fidavano più di tanto del Creatore.
Intanto provavo a guardare la luna e le nuvole con il binocolo che mi avevano regalato sperando, chissà, di trovare traccia di quel uomo piccolo e pelato che si occupava di me.
Infine venne il giorno che mi portarono al cimitero a vedere dove era il nonno. Esaminai attentamente le venature del marmo grigio scuro e le lettere dorate e in rilievo, poi provai a mormorare una preghiera fissando la sua foto in bianco e nero. Presto le parole imparate a dottrina cambiarono raccontando la storia di un cavallo scorbutico e di un sergente antipatico, fino ad una fine che mi fece reprimere a stento il riso. Da dietro il vetro, la faccia del nonno continuava a fissarmi, seria, ma io lo sapevo che anche lui stava facendo una gran fatica per non ridere, perché in un cimitero non si può ridere, nemmeno se sei morto. Così, senza farmi vedere, gli sorrisi strizzando l'occhio.
Dopo il funerale la nonna si mise a letto con la febbre. Trascorsi un paio di giorni si alzò, rifiutò una proposta di matrimonio e, con i soldi ricavati dalla vendita dell'attrezzatura del negozio del nonno, riarredò la stanza principale. Rispetto a prima rimasero solo la stufa e la foto di Papa Giovanni. Ora mobili erano più chiari e, toccandoli, parevano di plastica, la macchina da cucire aveva un pedale elettrico e il posto solitamente occupato dal nonno era diventato territorio di un televisore ancora ignaro del suo futuro ruolo di capofamiglia.
Ma la novità maggiore era la presenza di mio cugino, o meglio: la sua crescita.
Quel curioso bambolotto biondo a cui cercavo di toccare la testa neonata (di nascosto perché già più volte ammonito circa la sua fragilità), quel motivo per cui dovevo fare silenzio per non turbargli il riposo, quell'alieno con cui non si poteva fare niente perché troppo piccolo, era ora diventato un comodo compagno con cui ingaggiare epiche battaglie e interminabili partite a palla nello stretto corridoio.
Negli inevitabili litigi la nonna faceva da arbitro concludendo sempre che ero io a dover cedere perché "più grande". La cosa mi faceva sentire una sorta di perseguitato e manifestavo il mio dissenso barricandomi nella cameretta, se non da solo contro tutto il mondo almeno contro la nonna. In quei casi, mio cugino da acerrimo nemico diventava mediatore tra il potere nonnesco e me, ambasciatore imparziale di una vertenza che si concludeva con una mia onorevole e dignitosa resa quando il profumo proveniente dalla cucina annunciava l'ora di pranzo.
I presunti torti subiti cessarono gradualmente sotto la spinta irreversibile dei giorni. Non più pomeriggi e mattine e sere in quella vecchia casa, ma solo brevi puntate all'uscita di scuola, per il pranzo. La mia maggiore autonomia e il cugino passato sotto la giurisdizione della nonna paterna, rendevano il linoleum libero da giocattoli, pur rimanendo sempre i ritagli di stoffa e l'odore del cibo.
- E' merito dei tegami.- sbottavo di tanto in tanto.
- Cosa è merito dei tegami ?
- Il fatto che tu fai da mangiare meglio che la mamma. Anche lei è bravissima, ma la roba che fai tu ha un sapore diverso. Sono senz'altro i tegami.
Dopo pranzo le stoviglie riposavano nell'acquaio e il loro posto veniva preso dalle carte per le due o tre rituali mani di briscola. In perenne attesa di un asso, esploravo i ricordi della nonna che, primogenita tra undici fratelli e sorelle aveva un sacco di cose da raccontare, anche se, prima o poi, si andava poi a finire di parlare del nonno.
- Aveva dei capelli neri e dritti come i tuoi.
- Ma và ! Quando lo diceva credevo che era perché si vergognava di essere pelato.
- No, no. Si foss piovò di maccaron al infilzeva tot . Grazie per il carico.- concludeva soddisfatta che se anche era impegnata a parlare aveva sempre ben chiaro che cosa avevo scartato.
Se la nonna era una miniera di nuovi aneddoti e storie circa quell'uomo che non avevo mai abbastanza conosciuto, non da meno lo era la sua camera.
Dominata da quel lettone alto e largo, fonte di conforto notturno e di sgridate quando, appena rifatto lo trasformavo in zattera oceanica, tappeto elastico, Fort Alamo ,o qualsiasi altra cosa avessi nella mente, con due grosse palle di legno agli angoli della testiera e che sarebbero state quattro se il nonno, irritato dal continuo sbatterci contro, non avesse preso in mano la sega interrompendo così il motivo che proseguiva nella forma dei cassettoni e della toeletta.
I due armadi erano zeppi dei vestiti delle clienti, ma nei cassetti o negli angoli si trovavano ancora gli oggetti salvati dagli sciacalli della guerra e poi appartenenti ad una vita ricostruita. Una medaglietta votiva, una moneta da 50 £. che il nonno aveva dato a sua moglie allo scopo di andare al cinema insieme alla loro ultimogenita e che lei, stupita, aveva messo nella custodia vellutata di un gioiello, per sacralizzare quel raro momento in cui il nonno aveva messo mano al portafoglio per una questione di svago (tra le altre cose la nonna mi informò che UN biglietto costava già 100 £.).
Con le dita esploravo il mobile cercando le cose di due o tre generazioni prima della mia, cose già sorpassate dalla velocità del quotidiano ma che continuavano a parlarmi del mondo da cui io provenivo. Cose come la foto del nonno da giovane. Un rettangolo ingiallito che mi rimandava una immagine di lui sconosciuta, con la divisa dell'esercito e capelli neri, folti e dissidenti in cima al capo.
Trovai anche il suo vecchio orologio, quello che non era più riuscito a rivedere in vita.
Il quadrante era un po' ingiallito ma, data la carica, si svegliò subito dal suo lungo letargo e mentre emetteva il suo rassicurante tic-tac me ne stetti lì a guardare quel quadrante così rotondo da assomigliare ad una luna.
Mentre le lancette in rame risorgevano ad una nuova vita, la strada dove abitava la nonna stava cambiando. I proprietari (due o tre in tutto che, si diceva, avessero fatto fortuna con la guerra) avevano calcolato che la manutenzione di quelle catapecchie, per quanto ridotta a meno del minimo indispensabile, era comunque onerosa. Meglio vendere tutto alle immobiliari iniziando da quelle più vecchie e cadenti. I rappresentanti dei nuovi padroni, fecero subito intendere che non c'era futuro per quelle scale buie e scivolose, per i portoni scardinati che si aprivano sotto al portico, per i cessi sul pianerottolo. Le vecchiette che nelle sere d'estate portavano la sedia fuori dalla porta di ingresso per prendere il fresco che scendeva dai colli, ma sopratutto, raccogliere gli aggiornamenti sulla vita della strada, sarebbero state sostituite da studenti fuori sede, svenati da un posto letto.
In un film americano ci sarebbe stato un finale dove gli abitanti della strada si sarebbero riuniti a guardare le case completamente ristrutturate e avrebbero tirato fuori i tavoli per preparare una cena di gruppo con cui festeggiare l'eroe che aveva costretto o convinto i proprietari a dare dignità ai fabbricati permettendo che i vecchi inquilini rimanessero nei luoghi dove erano nati e vissuti. Ma in quella strada appena dentro porta non c'erano eroi, ma solo matti, immigrati e pensionati, e così anche le vecchie e buie botteghe si trasferirono una dopo l'altra costringendo la nonna a portare un po' più lontano le sue gambe sempre più stanche per entrare in nuovi negozi. Una mattina non rispose al campanello e mi misi ad aspettare in quel bar sotto casa dove gestore, da un paio di decenni, continuava a chiamarmi con un nome che non era il mio. Nel mezzo di una discussione tra due avventori circa la prossima campagna acquisti del Bologna, vidi la ben nota testa bianca discendere il portico bilanciandosi con due grosse borse della spesa.
- Come mai non sei a scuola ?- chiese subito.
- Ci sono le elezioni nonna, si fa vacanza.
- Perché non stai a mangiare qui allora. Mangeremo un po' più tardi perché ho perso tempo con la messa ...
- Di martedì mattina?- chiesi un poco stupito - C'è qualche ricorrenza particolare ?
- No. Mi ero fermata in chiesa solo per appoggiare un attimo la spesa che con questo caldo non ce la facevo più. Stavo andando via e si è avvicinato il prete nuovo "Signora stia pure qua che inizio subito la messa". Non avevo intenzione di ascoltarla ma lò l'era achsè zentil !
- Era così gentile che ci fa mangiare tardi.
- Va là che ant'mor brisa ed fam! E poi quel pretino ti assomigliava anche
- Prima che ti mettessi sù cla barbaza da carbuner.- concluse infine con una occhiata critica ma non troppo.
Quelle gambe, ammirate dagli uomini del suo paese, ora facevano uno sforzo per sorreggerla sebbene il suo peso fosse notevolmente calato. Una domenica mattina accettò la mia offerta di accompagnarla al cimitero. Incuranti di tutto e di tutti, le persone si ostinavano a morire costringendo l'amministrazione comunale ad aprire nuovi ingressi e campi. Nonostante i cambiamenti e i nuovi passaggi, la bussola della nonna funzionava ancora a meraviglia e procedeva sicura, con le gambe che sembravano tornate a nuova vita e il nipote dietro che arrancava con il secchio.
Arrivati dal nonno proposi scherzosamente:
- Perché non ci mettiamo la foto che ho trovato io ? Tra l'altro ha i capelli.
Ci pensò su un poco poi scartò l'idea.
- Va bene anche questa, è venuto così bene.
- Sai nonna che mi hanno detto che quando una persona muore l'anima prende la faccia e il corpo di quando aveva trentatre anni. Come gli anni di Cristo.
- Ah, a quella età lì tuo nonno faceva la sua figura nonostante fosse piccolino. Lui diceva che aveva il fegato rovinato per colpa di quello che stava facendo Mussolini.
- Non lo mandava giù eh?
- Proprio per niente. Nemmeno quando era socialista come lui.
- Mettiamola così - dissi rivolto alla lapide - Mussolini non c'è più ma il tuo orologio continua ad andare.
Uscendo dal cimitero la nonna commentò scaramanticamente:
- Adesso che il padrone vende questa sarà la mia prossima casa.
- Beh! Per lo meno sei sicura che non hai lo sfratto!
- Ah se è per quello credo che avrò anche dei vicini tranquilli! - rise lei
- Facciamo così - proposi - Quando muori mi vieni in sogno e mi dai i numeri per un bel terno secco. Poi ti faccio una bella statua.
- Che statua e statua. Basta che mi dici ciao quando passi di qua.
Non ci fu nessun numero del lotto. Dio, o chi ne fa le veci, con discutibile senso di giustizia e equità le riservò una agonia tanto lunga quanto immeritata e inutile e un posto nel cimitero periferico per esaurimento di quello centrale. E' più piccolo, quasi accogliente e proprio a ridosso della tangenziale. Sovente ci corro accanto, frettoloso e distratto, e solo di rado realizzo che tra quei rettangoli di terra e marmo ce ne è uno che ospita la nonna. Potrei svoltare alla prima uscita e sostare qualche minuto, ma il pensiero di dover trovare un parcheggio e di cercare il punto in cui è sepolta mi sembrano, improvvisamente, difficoltà insormontabili. Mi dico che non ho abbastanza tempo per tentare di superarle ben sapendo che l'incalzare del quotidiano è da sempre la migliore scusa per non affrontare le proprie paure.
Paure anche banali come entrare in un cimitero senza una mano, sforacchiata dal lavoro da sarta, che ti guidi; o come guardare una fotografia protetta dal vetro, troppo limitata al confronto di tutte le immagini catalogate nella testa; o avere per compagnia il rimpianto di una bacio non dato, di una carezza trattenuta o, peggio ancora, il desiderio di una sconfitta a briscola, di un viso disegnato tra i crateri della luna.
Allora mi limito a mormorare un ciao esile e fragile. Abbastanza forte da rendere ancora più salda la memoria.
A Quercioli ‘94

A sinistra la futura nonna Ines con una delle sue 7 sorelle (e 5 fratelli) Fulvia. La foto è di un mese imprecisato del 1919










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