domenica 17 giugno 2007

Storia con eroi


- Ma sei ancora lì con quel latte?
Chissà mai perché la nonna si stupiva ? Oramai doveva essere abituata, alla domenica mattina, ai miei indugi sulla tazza della colazione.
- Scotta !
La temperatura del liquido era solo una delle scuse che avevo in serbo per starmene lì seduto sul mio personale sgabello a guardare i grani di polvere risalire la luce del sole. Il fenomeno era simile alle bolle di sapone, solo che le fragili sfere si potevano vedere mentre il mio soffio le formava, i granelli no, non ne vedevo origine e destinazione. Dove andavano ?
- Mettici un po' di latte freddo.
- Sì - rispondevo prendendo una lunga sorsata dalla tazza di stagno e rovesciando il rimanente nell'acquaio controllando che non mi vedesse.
La nonna arrivava dalla camera senza l'usuale vestito da casa, con il cappotto verde scuro dal collo di pelliccia e i capelli più bianchi del solito per effetto della spazzola. Chiudeva le persiane e cercava di mettere ordine nella mia riottosa capigliatura mentre mi attardavo a guardare ancora il misterioso pulviscolo che risaliva le sottili strisce di luce fino a raggiungere, ne ero quasi certo , il sole.
Mi piaceva il sole, specie quando scaldava una giornata invernale. Sembrava una promessa e si sa, per i bambini le promesse sono sacre. Così trotterellavo allegramente al fianco della nonna che marciava spedita rispondendo cortese ai molti saluti dei passanti. Però non si fermava, a differenza di quando faceva la spesa e ogni pilastro del portico era buono per scambiare due chiacchiere mentre io, annoiato dalle cronache orali della strada, mi sfidavo a stare il più tempo possibile in equilibrio sul piede sinistro.
Alla domenica mattina non c'era tempo per le soste, neanche a quella abituale di fronte alla immagine della Madonna, in fondo alla strada. Al massimo un bacio mandato sulla punta delle dita. La Madonna era sempre lì, il filobus, invece, andava via.
A me pareva la tradotta militare che avevo visto in fotografia. Forse per il colore verde oliva o per lo snodo di gomma che lo divideva in due come i vagoni dei treni. Dentro era bellissimo, con il gabbiotto del conducente pieno di leve e pulsanti, le porte pneumatiche e il mondo, per me ancora irraggiungibile, dei sostegni lassù in alto. Circa i posti a sedere c'era solo l'imbarazzo della scelta: nei sedili a coppia disposti in modo da vedere fuori dal finestrino, o in quelli singoli rivolti verso il corridoio.
Io, appena potevo, mi arrampicavo dove stava il bigliettaio prima di essere sostituito dalle macchinette. Con il seggiolino imbottito e un ripiano sul davanti si stava più in alto di tutti e dato che era stretto potevi anche fare la finta di cedere il posto agli anziani che sempre dicevano un po' spaventati:
- No, no grazie.
Il filobus faceva un sacco di rumore ed era sempre un viaggio pieno di scossoni. Ogni tanto un colpo più forte faceva uscire le guide dai fili e allora l'autista doveva scendere e, impugnando una lunga stanga rimettere tutto a posto che se no non si ripartiva. In quei casi c'era sempre un passeggero o un passante che iniziava a dare consigli, ma spesso l'occhiataccia del conducente lo zittiva.
C'erano forse una dozzina di fermate che ci separavano dalla meta, e a me pareva un viaggio lunghissimo. Usciti dal centro si superavano la strada dove abitavo, la chiesa e la casa di mia zia, limite estremo della mia autonomia. Sapevo che quella linea arrivava fino a dove abitava una mia seconda zia, lontanissima, addirittura oltre un cartello con indicato il nome della mia città e sbarrato da una riga rossa.
La sua casa era diversa da quelle che conoscevo. Innanzitutto non aveva gli scuri, ma delle specie di saracinesche in plastica che si tiravano su e giù con una corda ed erano belle anche se non si poteva spiare fuori come con le persiane, e poi i pavimenti in marmo e le piastrelle azzurre sulle pareti del bagno, sicuramente la stanza più interessante dell'intero appartamento. Quando capitavo là, cercavo sempre di farmi fare il bagno. In quella casa moderna infatti, l'acqua calda usciva dal rubinetto e non bisognava farla prima bollire sulla stufa come doveva fare mia madre.
E poi la zia metteva nella vasca un liquido verde che faceva un buon profumo e una grande schiuma, e, a volte, rimaneva lì con me a giocare. Era divertente , ma avevo spesso l'impressione che, sotto sotto, mi fregasse perché con la scusa del gioco andava a finire che mi lavava sempre i capelli.
Alla domenica mattina la nonna e io non arrivavamo fino dalla zia, scendevamo prima, di fronte allo stadio dove, a volte, mio padre mi portava a vedere la partita.
Ce lo lasciavamo subito alle spalle , infilandoci per il lungo portico ingombro di botteghe di fiorai. Erano solo un centinaio di metri , umidi e colorati, poi ecco l'ingresso del cimitero comunale.
Quella particolare entrata immetteva nel settore più antico, di quando la città viveva ancora tra le sue mura. Seguivo la nonna in quel labirinto di porticati su cui si affacciavano stanzoni luccicanti di innumerevoli ceri, cercando le tombe con le date più lontane e stupendomi del realismo delle statue in marmo.
- Posso portare l'acqua? Eh … nonna, posso? - iniziavo a chiedere appena sui campi. Era un segno di maturità tenere il secchio verde e stare dietro alla nonna che sembrava guidata da una magica bussola: tagliava per un campo, svoltava un angolo ed ecco lì un parente!
I fiori secchi venivano sostituiti con quelli freschi, il marmo pulito, il tutto con gesti resi abili dalla pratica e mormorando preghiere a fil di labbra. Io le ero grato per quelle soste purché non si prolungassero più di tanto perché se no la noia mi prendeva e,soprattutto, non rimaneva il tempo di passare dal mausoleo dedicato ai caduti, dove le statue avevano le stesse pose dei miei soldatini.
Avevo solo una vaga idea di quanto fosse vasto il cimitero. Ai miei occhi appariva immenso, pieno di passaggi e scale misteriose che si moltiplicavano all'infinito. A volte immaginavo di perdermici e di trascorrerci la notte, nascosto a spiare i fantasmi che si levavano al chiaror della luna. Il pensiero mi incuteva angoscia e subito mi attaccavo alla mano della nonna.
Lei mi guardava un po' perplessa ma non rifiutava mai quel inatteso contatto. In quel luogo dove la fretta appare incongrua, la sua voce era finalmente purgata dall'ansia del finire un vestito per tempo, ed ero contento che quelle dita sforacchiate dal cucito stringessero le mie invece che il suo consueto lavoro da sarta. In quei momenti pensavo che, senza quella mano, non avrei mai osato mettere piede in un cimitero.
Il percorso era sempre lo stesso, con poche, fuggevoli variazioni: un paio tra la gli innumerevoli fratelli e sorelle che aveva avuto, qualche cugina, i miei bisnonni. Infine suo marito, mio nonno. Avevo fatto in tempo a conoscerlo e mi era stato sempre ripetuto di come lui fosse stato contento della mia nascita , primo e unico maschio dopo tre figlie ed una nipote. Assolutamente ignaro del fatto di essere l'unico infante di cui il nonno si sia mai occupato in settantadue anni di vita, godevo del privilegio di viaggiare su un sellino installato sulla canna della bicicletta, di ricevere 20 £. da investire in semi di zucca e di interrompere scope e tresette in osteria per dichiarare che avevo sonno e diventare così prioritario ad un settebello e primiera messi insieme.
I miei amici avevano dei nonni molto imponenti, alti, grossi e con grandi baffi a manubrio o lunghe barbe bianche. Il mio era invece molto magro, con dei corti baffetti appena accennati e piuttosto basso di statura. La questione della statura non mi dispiaceva, anche perché, nelle sere d'estate, portava uno sgabello vicino alla finestra ed io, da lì sopra, ero alto come lui e allora veniva bene fare discorsi tra uomini o semplicemente ascoltare le tante voci di una strada abituata a vivere a cielo aperto.
Dirimpetto alla finestra c'era un muro altissimo da cui spuntavano dei rampicanti e, talvolta, anche la luna.
- Nonno, per te cosa c'è sulla luna ?
- Mah, a me dicevano che ci sono tutte le cose che uno ha perso.
- Anche i giochi che non trovo più ?
- Tutti.
- Delle volte io non uso i giochi, penso, che so, di essere un cow-boy e mi diverto lo stesso. Forse quando smetto di giocare anche i pensieri vanno lassù, eh nonno?
- Probabile.Da qualche parte devono pure andare.
- E quando sono lassù che fanno ?
- Ah, c'è qualcuno che li tiene da conto. Vedi - indicava la luna - vedi che sembra una faccia ? Gli occhi, il naso, la bocca...
- Ma , a me la nonna ha detto che quella è la faccia di un bimbo che è stato mandato lassù perché faceva arrabbiare.
Il nonno non si lasciava prendere in contropiede.
- Sì, ma poi stava così bene là che decise di fare il custode delle cose perse.
Mi lasciavo convincere facilmente da questa versione che non aveva quella punta di tristezza che mi creava la storia del bambino esiliato in cielo.
- Nonno, quando divento grande vado sulla luna e poi ti riporto l'orologio che hai perso. E se li trovo anche i tuoi capelli.
- Dei capelli oramai non mi importa più niente. L'orologio invece... andevà acsè ban.- concludeva con una punta di rimpianto.
Dopo pranzo dichiarava: - Adesso io e te ci facciamo un bel pisolino.
La cosa non è che mi riempisse di entusiasmo, però mi intrigava il suo tono di complicità e così lo imitavo: chino sul tavolo a braccia conserte o con la fronte posata sui pugni chiusi. Il sonno girava, girava e non veniva mai, aprivo un occhio, uno solo, e spiavo il nonno. Inquadravo solo la sua testa con la pelle lucida e tirata e le vene e i capelli intorno. Di volta in volta diventava un melone, un uovo di pasqua, un paesaggio.
- Nonno perché sei senza capelli proprio tu che fai il barbiere? - domandai una volta
- Cosa c'entra, un barbiere i capelli li deve tagliare, mica riattaccare.
- Sì, ma non mi sembra giusto.
- E allora, pensa mò ad un muratore che costruisce una villa e poi magari abita in una baracca !.
- E non può costruirsi una villa per lui ?
- Eh ! Mica è così semplice.- sospirò - E comunque io i capelli li avevo , e tanti e dritti come i tuoi.
- Davvero ? e poi cosa è successo ?
- Poi è venuta la guerra.
- Quale ?
- La seconda.
L'affermazione mi lasciava sempre un po' perplesso. Sapevo che aveva visto due guerre mondiali e che nella prima aveva combattuto tornando a casa integro. Come era possibile che fosse rimasto ferito nella seconda se non aveva nemmeno combattuto ? E nei capelli poi. Un mio amico aveva il nonno che era stato decorato perché mutilato ad un braccio durante il conflitto. Il mio avrebbe avuto una piccola medaglia per aver perso i capelli ?
Dalla scuola non arrivava granché in merito alla II° guerra mondiale, ma io ne sapevo abbastanza perché leggevo i fumetti "Super Eroica", le famose storie di cielo, di terra e di mare dove tedeschi e giapponesi più erano feroci più brutte figure collezionavano. Ma soprattutto c'erano i ricordi, ancora freschi, dei miei genitori, che spesso uscivano incontenibili ad una semplice mia domanda.
Del I° conflitto era invece più problematico trovare informazioni. Un libro di mio padre dove c'era un bel disegno di un ufficiale alpino che guidava un attacco tra morti, feriti e filo spinato, in piedi in mezzo al fuoco; il maestro che raccontava la storia di Enrico Toti e della sua stampella; la canzone del Piave; e il fatto che noi italiani, alla fine, quella guerra lì l'avevamo poi vinta.
Chiedevo conferme al nonno che però si limitava a rivangare un aneddoto di trincea con protagonisti un sergente antipatico ed un cavallo nervoso. Doveva essere un episodio piuttosto buffo, perché quando arrivava a metà si metteva a ridere fino a che il catarro prendeva il posto dell'ilarità, diventava tutto rosso dai colpi di tosse e correva nello sgabuzzino che faceva da bagno.
A me sarebbe piaciuto che fosse arrivato almeno una volta alla fine della storia, o che almeno avesse raccontato qualcosa d'altro, anche se meno buffo, ma lui alle mie indagini, dava sempre risposte che non mi soddisfacevano pienamente.
- Tu sei stato un eroe ?- chiedevo
- Mah! Ho fatto il mio dovere...
- E quale era il tuo dovere ?
- Di vincere, e di tornare a casa.
- E abbiamo vinto no ?
- Sai, gira e rigira, in guerra i poveretti come me non vincono mai.
- E allora chi vince nonno ?
- I "signori" ! Quelli non perdono mai !
E così il nonno pur essendo stato in prima linea non aveva vinto perché non "signore". Non era giusto pensavo, ci sarebbe voluta una guerra in cui i poveretti potevano vincere.
L'appartamento dove abitavano era composto da due camere, corridoio e una stanza che era il centro della vita quotidiana. Quella stanza era chiamata "casa" ed ogni altra definizione sarebbe stata stretta a quelle pareti lunghe e strette che riuscivano ad ospitare i fornelli, la stufa, tavoli e sedie e un piccolo water nascosto dietro una porta in legno. I ritagli di stoffa e i miei giochi che riempivano il pavimento erano illuminati dall'ampia finestra, unica distrazione della nonna che, di tanto in tanto, abbandonava la vicina macchina da cucire per affacciarsi e seguire qualche alterco giù in strada. A parte la camera dei nonni che dava anch'essa sulla strada, c'era la cameretta piena di vestiti solo imbastiti, roba da stirare e cose del genere, ma che una volta era stata la stanza della mamma e delle zie
Si bisbigliavano i loro segreti sdraiate su un letto che di giorno si trasformava in mobile, lo stesso che, teoricamente, doveva essere riservato al mio riposo notturno quando, e succedeva di frequente dormivo dai nonni. Ma la cameretta aveva una finestra che dava direttamente sulle scale e quando qualche nottambulo accendeva l'interruttore generale il manichino da sarta si animava, la vecchia poltrona piena di abiti era ostile e pericolosa e l'ombra della grata alla finestra si allungava sul soffitto, proprio sopra di me, con il proposito,certo, di inghiottirmi. Di corsa riempivo lo spazio del corridoio e saltavo sul lettone dei nonni infilandomi tra di loro. Nascondevo il viso tra le pieghe della camicia da notte di lei, ascoltando i borbottii del nonno che duravano poco, forse perché stanco, forse perché non troppo dispiaciuto di quella intrusione. Una sera un ubriaco salì le scale con il passo sempre più pesante per il vino e declamando maledizioni al mondo e subito fuggii ad avvertire l'uomo di casa ancora sveglio.
Saltai sul tavolo scompigliandoli le carte del solitario e annunciando:
- Nonno c'è un nemico !
- Che nemico ?
- Sembrava un uomo cattivo, ma potrebbe essere un soldato.
- Allora gli punti il fucile contro e dici: altolà! - spiegò mimando il gesto.
- Vieni tu a farlo.
- Perché ?
- Tu hai fatto la guerra, sai sparare con il fucile.
- Sì, però non avevo una buona mira, e poi non importa avere il fucile per ammazzare una persona.
Nonostante la guerra al fronte il nonno diceva che non aveva mai ucciso nessuno. Però io sapevo che ci era andato molto vicino subito dopo la fine del II° conflitto.
Stava arrivando il primo Natale della ricostruzione e nelle campagne e sui monti si sentivano botti isolati che non erano segnali di festa ma conti saldati in fretta prima della completa normalizzazione.
Lui stava giocando a carte quando era stato interrotto.
- Ven d'là ! Ven d'là !
- Aspeta un atum.
- Ven d'là at degh! Aiè un quel che te da vaddar !
- Cus el d'achsè impurtant ? Al Negus ?
- Un quel migliaur. Ven d'là che tal vaddet !
Aveva posato le carte un po' riluttante, che era da ancora prima della guerra che non aveva la possibilità di fare re-bello, primiera e gli ori, e aveva seguito l'uomo decisamente euforico nello stanzino sul retro, occupato da un mucchio di persone che si fecero da parte al suo ingresso. Ciò che avevano da mostrargli era una preda. Braccia abbandonate lungo i fianchi, i vestiti troppo larghi per essere i suoi, con il colletto della giacca tenuto saldamente da una mano larga, appartenente ad un uomo che, vedendo mio nonno esclamò:
- Vè mò cusa oia ciapè !
L'altro non si mosse, rimanendo a capo chino riparato da una zazzera arruffata e sporca. Non aveva bisogno di alzare la testa, perché mio nonno la conosceva bene quella chioma. Per anni ci aveva passato pettine e forbici discutendo di famiglia e politica. In tante sere l'aveva valutata criticamente tra una mano di tresette e un bicchiere di vino novello, consigliando, infine, una spuntatina. L'aveva anche indovinata sotto il fez, girarsi in maniera ostentata per non salutare il vecchio compagno socialista e ora nemico, o forse vergognosa del suo taglio fatto da mani meno abili ma più fasciste.
Sì, ricordava bene l'ultima volta che aveva visto quei capelli: in una stanza del Comando, china su un foglio dove si compilava la lista dei passeggeri di un convoglio diretto in Germania, con un biglietto di sola andata.
Quei vagoni non erano nemmeno usciti dalla stazione, aperti come carta da una bomba americana che aveva dato il via a quattro mesi vissuti in una grotta insieme a cinque persone con cui dividere pidocchi, fame e paura. Ora ecco lì un complice di tante amicizie tradite, di oggetti, persone ed affetti dispersi, di vite da rimettere insieme con coraggio e pazienza. Un complice da consegnare alle nebbie della storia senza nemmeno sporcarsi di sangue le mani. Provò lo stesso vago senso di nausea che gli veniva quando, da bambino, vedeva sgozzare il maiale, e si passò una mano tra i capelli come sempre faceva quando era indeciso sul da farsi. Ma invece dei capelli incontrò la pella venuta alla luce durante i mesi della latitanza. Sospirò e disse:
- Tatat ban cla caviera e pò va a let e cruvet. Barbazan tè e al Duce !
Volse le spalle tornando alle sue carte e liquidando così un ventennio di storia.
Tornavo dalle vacanze estive sempre pieno di energie e con tante nuove esperienze da trasmettere al nonno che, chissà perché, in villeggiatura non ci andava mai.
Quell'anno poi era successo qualcosa di importante: l'uomo era andato sulla luna ed io avevo seguito l'evento in TV.
- Dovevi vederlo nonno ! Peccato che non hai la tele!
- Sì, ma ho visto le fotografie sul giornale.
- Non è la stessa cosa dai !
Raccontai per filo e per segno tutta la questione, dalle divergenze tra i commentatori italiani circa i metri che mancavano all'allunaggio a i saltelli di Aldrin sul suolo del satellite. Infine lo informai che sulla luna non c'era nessun essere vivente e, cosa ancor più grave, nemmeno un oggetto smarrito sulla terra.
- Manderanno un altro razzo a cercare meglio.- fu il suo commento.
Stavo per rimbeccare che si diceva modulo lunare e non razzo, ma poi pensai che forse era dispiaciuto perché lassù non avevano trovato traccia del suo orologio, e così mi ripromisi di spiegargli la differenza in un altro momento.
Non ne ebbi il tempo perché l'autunno che seguì decise di andarsene con lui.
Lo sognai per la prima e unica volta nella mia vita: nel letto matrimoniale dei miei genitori stava con due cuscini dietro la schiena a riprendere l'antico vizio del fumo.
- Dicono che stai male.- lo informavo
- Lasa chi deggan.- rispondeva con una alzata di spalle. Poi iniziava a raccontare la storia del cavallo scorbutico e del sergente antipatico e sembrava che, per una volta, la tosse avesse deciso di lasciarlo proseguire fino alla fine.
Arrivò invece la voce di mia madre, agitatissima, ad interrompere il sogno.
- Il babbo stà male. -
Fu la mia sveglia quel mattino.
Una volta aperti gli occhi tutto iniziò a correre a grande velocità. La mamma , ancora in camicia da notte, che tentava di spiegarmi che c'erano dei problemi con il nonno ricoverato, da un po' di giorni, all'Ospedale cittadino; la corsa in macchina fino dalla zia; di nuovo le coperte di un letto; una ultima inutile raccomandazione per me e mia cugina:
- Dormite adesso e non preoccupatevi per il nonno.
Ma di riprendere il sonno non se ne parlava nemmeno.
Già il fatto di essere con la mia baby sitter preferita era per me una festa, perché, nonostante i nove anni di età che ci separavano, andavamo molto d'accordo. Con lei potevo leggere i suoi giornali di musica ed ascoltare i 45 giri dei Giganti e dei Rokets nel mangiadischi, in cambio le fornivo discrezione assoluta quando incontrava qualche ragazzo.
Dopo aver un po' disquisito circa la storia del nonno, la coperta fatta a mano mi convogliò verso discorsi più confidenziali.
- Hai fatto bene a non stare più con quello che giocava a calcio. Mi aveva promesso una foto del Bologna con gli autografi ma ...
- Cosa ne sai tu ?
- Quella volta che mi sei venuta a badare e se andata un attimo giù in strada, ho guardato dalla finestra e c'era un tizio con la moto.
- Ma era un mio amico !
- Però gli hai dato anche un bacio come a quell'altro! Ti ho visto dalla finestra ma non ho detto niente a nessuno, te lo giuro, neanche alla mamma!
- Di te mi fido.
- Davvero ?
- Se non era così mica lo facevo venire sotto casa !
Discorsi interrotti dalla serratura della porta. Mia zia attese di essere a fianco del letto per annunciare:
- Il nonno non c'è più.
- Questa è meglio che la copriamo.- proseguì attenuando la luce della bajour sul comodino con un fazzoletto e mentre mia cugina fuggiva dal letto lasciandomi , solo, preda di facili singhiozzi.
Le dita della zia indugiarono sulle linee dei miei capelli, dolcemente come il tono consolatorio della voce, fino a che il pianto non si calmò.
- Meglio che vada da quella figlia - mormorò - lei non riesce a piangere e tiene il dolore dentro.
Ma forse non si poteva chiamare dolore. Forse il nome esatto era paura.
Ora mia madre e le zie erano orfane a tutti gli effetti, come quei personaggi di storie strappalacrime che tentavo faticosamente di leggere. Per un nipote che aveva perso il nonno non c'era termine adeguato e così l'unica maniera per farmi compatire era di piangere. Nel tentativo di consolarmi qualcuno disse che il nonno se ne era andato in Paradiso vicino al Signore, ma la cosa peggiorò il mio stato d'animo, perché da che il nonno era entrato in ospedale non era passato giorno che non pregassi per una veloce guarigione rafforzando le mie orazioni con promesse . Invece quell'entità che mi avevano insegnato ad adorare se ne era completamente fregato dei miei sforzi. Lui che poteva avere tutti i nonni che voleva si era andato a prendere proprio il mio, come qualsiasi bambino più grande che ti ruba il gioco a scuola. E poi per portarlo dove ? In quel paradiso che pareva un luogo bellissimo ma che però, quando qualcuno ci andava piangevano tutti ? Perché disperarsi? Forse anche gli adulti, in fondo, non si fidavano più di tanto del Creatore.
Intanto provavo a guardare la luna e le nuvole con il binocolo che mi avevano regalato sperando, chissà, di trovare traccia di quel uomo piccolo e pelato che si occupava di me.
Infine venne il giorno che mi portarono al cimitero a vedere dove era il nonno. Esaminai attentamente le venature del marmo grigio scuro e le lettere dorate e in rilievo, poi provai a mormorare una preghiera fissando la sua foto in bianco e nero. Presto le parole imparate a dottrina cambiarono raccontando la storia di un cavallo scorbutico e di un sergente antipatico, fino ad una fine che mi fece reprimere a stento il riso. Da dietro il vetro, la faccia del nonno continuava a fissarmi, seria, ma io lo sapevo che anche lui stava facendo una gran fatica per non ridere, perché in un cimitero non si può ridere, nemmeno se sei morto. Così, senza farmi vedere, gli sorrisi strizzando l'occhio.
Dopo il funerale la nonna si mise a letto con la febbre. Trascorsi un paio di giorni si alzò, rifiutò una proposta di matrimonio e, con i soldi ricavati dalla vendita dell'attrezzatura del negozio del nonno, riarredò la stanza principale. Rispetto a prima rimasero solo la stufa e la foto di Papa Giovanni. Ora mobili erano più chiari e, toccandoli, parevano di plastica, la macchina da cucire aveva un pedale elettrico e il posto solitamente occupato dal nonno era diventato territorio di un televisore ancora ignaro del suo futuro ruolo di capofamiglia.
Ma la novità maggiore era la presenza di mio cugino, o meglio: la sua crescita.
Quel curioso bambolotto biondo a cui cercavo di toccare la testa neonata (di nascosto perché già più volte ammonito circa la sua fragilità), quel motivo per cui dovevo fare silenzio per non turbargli il riposo, quell'alieno con cui non si poteva fare niente perché troppo piccolo, era ora diventato un comodo compagno con cui ingaggiare epiche battaglie e interminabili partite a palla nello stretto corridoio.
Negli inevitabili litigi la nonna faceva da arbitro concludendo sempre che ero io a dover cedere perché "più grande". La cosa mi faceva sentire una sorta di perseguitato e manifestavo il mio dissenso barricandomi nella cameretta, se non da solo contro tutto il mondo almeno contro la nonna. In quei casi, mio cugino da acerrimo nemico diventava mediatore tra il potere nonnesco e me, ambasciatore imparziale di una vertenza che si concludeva con una mia onorevole e dignitosa resa quando il profumo proveniente dalla cucina annunciava l'ora di pranzo.
I presunti torti subiti cessarono gradualmente sotto la spinta irreversibile dei giorni. Non più pomeriggi e mattine e sere in quella vecchia casa, ma solo brevi puntate all'uscita di scuola, per il pranzo. La mia maggiore autonomia e il cugino passato sotto la giurisdizione della nonna paterna, rendevano il linoleum libero da giocattoli, pur rimanendo sempre i ritagli di stoffa e l'odore del cibo.
- E' merito dei tegami.- sbottavo di tanto in tanto.
- Cosa è merito dei tegami ?
- Il fatto che tu fai da mangiare meglio che la mamma. Anche lei è bravissima, ma la roba che fai tu ha un sapore diverso. Sono senz'altro i tegami.
Dopo pranzo le stoviglie riposavano nell'acquaio e il loro posto veniva preso dalle carte per le due o tre rituali mani di briscola. In perenne attesa di un asso, esploravo i ricordi della nonna che, primogenita tra undici fratelli e sorelle aveva un sacco di cose da raccontare, anche se, prima o poi, si andava poi a finire di parlare del nonno.
- Aveva dei capelli neri e dritti come i tuoi.
- Ma và ! Quando lo diceva credevo che era perché si vergognava di essere pelato.
- No, no. Si foss piovò di maccaron al infilzeva tot . Grazie per il carico.- concludeva soddisfatta che se anche era impegnata a parlare aveva sempre ben chiaro che cosa avevo scartato.
Se la nonna era una miniera di nuovi aneddoti e storie circa quell'uomo che non avevo mai abbastanza conosciuto, non da meno lo era la sua camera.
Dominata da quel lettone alto e largo, fonte di conforto notturno e di sgridate quando, appena rifatto lo trasformavo in zattera oceanica, tappeto elastico, Fort Alamo ,o qualsiasi altra cosa avessi nella mente, con due grosse palle di legno agli angoli della testiera e che sarebbero state quattro se il nonno, irritato dal continuo sbatterci contro, non avesse preso in mano la sega interrompendo così il motivo che proseguiva nella forma dei cassettoni e della toeletta.
I due armadi erano zeppi dei vestiti delle clienti, ma nei cassetti o negli angoli si trovavano ancora gli oggetti salvati dagli sciacalli della guerra e poi appartenenti ad una vita ricostruita. Una medaglietta votiva, una moneta da 50 £. che il nonno aveva dato a sua moglie allo scopo di andare al cinema insieme alla loro ultimogenita e che lei, stupita, aveva messo nella custodia vellutata di un gioiello, per sacralizzare quel raro momento in cui il nonno aveva messo mano al portafoglio per una questione di svago (tra le altre cose la nonna mi informò che UN biglietto costava già 100 £.).
Con le dita esploravo il mobile cercando le cose di due o tre generazioni prima della mia, cose già sorpassate dalla velocità del quotidiano ma che continuavano a parlarmi del mondo da cui io provenivo. Cose come la foto del nonno da giovane. Un rettangolo ingiallito che mi rimandava una immagine di lui sconosciuta, con la divisa dell'esercito e capelli neri, folti e dissidenti in cima al capo.
Trovai anche il suo vecchio orologio, quello che non era più riuscito a rivedere in vita.
Il quadrante era un po' ingiallito ma, data la carica, si svegliò subito dal suo lungo letargo e mentre emetteva il suo rassicurante tic-tac me ne stetti lì a guardare quel quadrante così rotondo da assomigliare ad una luna.
Mentre le lancette in rame risorgevano ad una nuova vita, la strada dove abitava la nonna stava cambiando. I proprietari (due o tre in tutto che, si diceva, avessero fatto fortuna con la guerra) avevano calcolato che la manutenzione di quelle catapecchie, per quanto ridotta a meno del minimo indispensabile, era comunque onerosa. Meglio vendere tutto alle immobiliari iniziando da quelle più vecchie e cadenti. I rappresentanti dei nuovi padroni, fecero subito intendere che non c'era futuro per quelle scale buie e scivolose, per i portoni scardinati che si aprivano sotto al portico, per i cessi sul pianerottolo. Le vecchiette che nelle sere d'estate portavano la sedia fuori dalla porta di ingresso per prendere il fresco che scendeva dai colli, ma sopratutto, raccogliere gli aggiornamenti sulla vita della strada, sarebbero state sostituite da studenti fuori sede, svenati da un posto letto.
In un film americano ci sarebbe stato un finale dove gli abitanti della strada si sarebbero riuniti a guardare le case completamente ristrutturate e avrebbero tirato fuori i tavoli per preparare una cena di gruppo con cui festeggiare l'eroe che aveva costretto o convinto i proprietari a dare dignità ai fabbricati permettendo che i vecchi inquilini rimanessero nei luoghi dove erano nati e vissuti. Ma in quella strada appena dentro porta non c'erano eroi, ma solo matti, immigrati e pensionati, e così anche le vecchie e buie botteghe si trasferirono una dopo l'altra costringendo la nonna a portare un po' più lontano le sue gambe sempre più stanche per entrare in nuovi negozi. Una mattina non rispose al campanello e mi misi ad aspettare in quel bar sotto casa dove gestore, da un paio di decenni, continuava a chiamarmi con un nome che non era il mio. Nel mezzo di una discussione tra due avventori circa la prossima campagna acquisti del Bologna, vidi la ben nota testa bianca discendere il portico bilanciandosi con due grosse borse della spesa.
- Come mai non sei a scuola ?- chiese subito.
- Ci sono le elezioni nonna, si fa vacanza.
- Perché non stai a mangiare qui allora. Mangeremo un po' più tardi perché ho perso tempo con la messa ...
- Di martedì mattina?- chiesi un poco stupito - C'è qualche ricorrenza particolare ?
- No. Mi ero fermata in chiesa solo per appoggiare un attimo la spesa che con questo caldo non ce la facevo più. Stavo andando via e si è avvicinato il prete nuovo "Signora stia pure qua che inizio subito la messa". Non avevo intenzione di ascoltarla ma lò l'era achsè zentil !
- Era così gentile che ci fa mangiare tardi.
- Va là che ant'mor brisa ed fam! E poi quel pretino ti assomigliava anche
- Prima che ti mettessi sù cla barbaza da carbuner.- concluse infine con una occhiata critica ma non troppo.
Quelle gambe, ammirate dagli uomini del suo paese, ora facevano uno sforzo per sorreggerla sebbene il suo peso fosse notevolmente calato. Una domenica mattina accettò la mia offerta di accompagnarla al cimitero. Incuranti di tutto e di tutti, le persone si ostinavano a morire costringendo l'amministrazione comunale ad aprire nuovi ingressi e campi. Nonostante i cambiamenti e i nuovi passaggi, la bussola della nonna funzionava ancora a meraviglia e procedeva sicura, con le gambe che sembravano tornate a nuova vita e il nipote dietro che arrancava con il secchio.
Arrivati dal nonno proposi scherzosamente:
- Perché non ci mettiamo la foto che ho trovato io ? Tra l'altro ha i capelli.
Ci pensò su un poco poi scartò l'idea.
- Va bene anche questa, è venuto così bene.
- Sai nonna che mi hanno detto che quando una persona muore l'anima prende la faccia e il corpo di quando aveva trentatre anni. Come gli anni di Cristo.
- Ah, a quella età lì tuo nonno faceva la sua figura nonostante fosse piccolino. Lui diceva che aveva il fegato rovinato per colpa di quello che stava facendo Mussolini.
- Non lo mandava giù eh?
- Proprio per niente. Nemmeno quando era socialista come lui.
- Mettiamola così - dissi rivolto alla lapide - Mussolini non c'è più ma il tuo orologio continua ad andare.
Uscendo dal cimitero la nonna commentò scaramanticamente:
- Adesso che il padrone vende questa sarà la mia prossima casa.
- Beh! Per lo meno sei sicura che non hai lo sfratto!
- Ah se è per quello credo che avrò anche dei vicini tranquilli! - rise lei
- Facciamo così - proposi - Quando muori mi vieni in sogno e mi dai i numeri per un bel terno secco. Poi ti faccio una bella statua.
- Che statua e statua. Basta che mi dici ciao quando passi di qua.
Non ci fu nessun numero del lotto. Dio, o chi ne fa le veci, con discutibile senso di giustizia e equità le riservò una agonia tanto lunga quanto immeritata e inutile e un posto nel cimitero periferico per esaurimento di quello centrale. E' più piccolo, quasi accogliente e proprio a ridosso della tangenziale. Sovente ci corro accanto, frettoloso e distratto, e solo di rado realizzo che tra quei rettangoli di terra e marmo ce ne è uno che ospita la nonna. Potrei svoltare alla prima uscita e sostare qualche minuto, ma il pensiero di dover trovare un parcheggio e di cercare il punto in cui è sepolta mi sembrano, improvvisamente, difficoltà insormontabili. Mi dico che non ho abbastanza tempo per tentare di superarle ben sapendo che l'incalzare del quotidiano è da sempre la migliore scusa per non affrontare le proprie paure.
Paure anche banali come entrare in un cimitero senza una mano, sforacchiata dal lavoro da sarta, che ti guidi; o come guardare una fotografia protetta dal vetro, troppo limitata al confronto di tutte le immagini catalogate nella testa; o avere per compagnia il rimpianto di una bacio non dato, di una carezza trattenuta o, peggio ancora, il desiderio di una sconfitta a briscola, di un viso disegnato tra i crateri della luna.
Allora mi limito a mormorare un ciao esile e fragile. Abbastanza forte da rendere ancora più salda la memoria.
A Quercioli ‘94

A sinistra la futura nonna Ines con una delle sue 7 sorelle (e 5 fratelli) Fulvia. La foto è di un mese imprecisato del 1919










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